Portare in luce il genuino dal pretenzioso, il solido dall’effimero, l’italianità dalla simulazione. A questo, forse, hanno pensato i protagonisti del progetto che ha preso forma nei mesi scorsi: ridare vita alla “già Locanda Solarola”, quella dove lo chef Bruno Barbieri ha mosso i primi passi in autonomia, dopo la straordinaria esperienza collettiva del Trigabolo, negli anni ’90, e che ha visto, nei primi anni duemila, l’esordio italiano di Roy Caceres.
Siamo nella campagna bolognese, a pochi chilometri da Castel San Pietro Terme, Medicina e Castel Guelfo, a venti minuti di strada dalla città metropolitana, eppure il silenzio sovrasta ogni cosa ed è qui che capisci il valore della locanda, quella italiana, dove l’ospitalità è tutto, fuorché chiassosa e distaccata.
Un concetto ben espresso da Andrea Frabetti, il locandiere di Solarola: “Da noi si deve vivere tutto quello che un viaggiatore curioso si aspetta di trovare: una buona conversazione, dei buoni cibi, il rispetto della sua privacy”.