C’è crisi nei consumi alimentari e ‘è crisi nella ristorazione, una situazione che perdura da anni e non accenna a diminuire, ma a questo si aggiunge un dato in controtendenza che deve preoccupare: per la salute, per l’economia e per i danni sociali e le ingiustizie che esso crea. Stiamo parlando di agromafie, quelle che nel solo 2014 hanno visto un aumento dei loro sporchi affari pari al 10% per un totale i 15,4 miliardi di euro.
Numeri che emergono dal 3° Rapporto Eurispes-Coldiretti presentato ieri a Roma, dove si traccia anche un percorso delle agromafie che escono dai loro confini per estendersi in tutto il Paese e all’estero.
L’incremento - sottolineano Coldiretti, Eurispes ed Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare - è stato determinato da diversi fattori tra i quali questi alcuni non prevedibili, come quelli climatici, che hanno colpito pesantemente la produzione, non più in grado di soddisfare la domanda, ciò che apre le porte a fenomeni di ulteriore falsificazione e sfruttamento illegale dei nostri brand; altri, dovuti alle restrizioni nell’erogazione del credito alle imprese che ne hanno decretato la chiusura o la vendita sottocosto.
Vengono infatti rilevati, attraverso prestanome e intermediari compiacenti, imprese, alberghi, pubblici esercizi, attività commerciali soprattutto nel settore della distribuzione della filiera agroalimentare, creando, di fatto, un “circuito vizioso”: produco, trasporto, distribuisco, vendo, realizzando appieno lo slogan “dal produttore al consumatore”.
Il caso più eclatante di questa filiera sporca sono i 5.000 locali della ristorazione che, stimano nel Rapporto, sono nelle mani della criminalità organizzata nel nostro Paese. Attività “pulite” che si affiancano a quelle “sporche”, avvalendosi degli introiti delle seconde, assicurandosi così la possibilità di sopravvivere anche agli incerti del mercato ed alle congiunture economiche sfavorevoli, ma anche di contare su un vantaggio rispetto alla concorrenza, la disponibilità di liquidità, e di espandere gli affari. La frequenza con cui si verificano questi fatti si accompagna ad un cambiamento culturale: fare affari con esponenti delle organizzazioni mafiose viene spesso considerato “normale”, inevitabile se si vuole sopravvivere. Viene considerato inevitabile non rispettare regole percepite come ingiuste, soffocanti per chi gestisce un’azienda, a cominciare dalla pressione fiscale.
In questo contesto prospera il money dirting, che è esattamente speculare al riciclaggio nel quale i capitali sporchi affluiscono nell’economia sana; per contro, nel money dirtying sono i capitali puliti ad indirizzarsi verso l’economia sporca.
Un fenomeno che, nel settore del food & beverage, incide per circa 1,5 miliardi, ossia un transito sotto forma di investimento dall’economia sana a quella illegale ovvero circa 120 milioni di euro al mese, 4 milioni di euro al giorno. In buona sostanza, molti tra coloro che dispongono di liquidità prodotta all’interno dei settori attivi nonostante la crisi, trovano convenienti e pertanto decidono di perseguire forme di investimento non ortodosso, con l’obiettivo del massimo vantaggio possibile affidandosi a soggetti borderline o ad organizzazioni in grado di operare sul territorio nazionale e all’estero in condizioni di relativa sicurezza.
Numeri che cominciano a destare preoccupazione, soprattutto se integrati con l’altro fenomeno dell’italian sounding che genera nel mondo 60 miliardi di falso made in Italy. Per un Paese che ha fatto della qualità e della sicurezza alimentare un modello è indispensabile e urgente correre ai ripari.
Luigi Franchi