Parlami di te, di come sei diventato cuoco, di cosa volevi fare da grande?
“Da dove partiamo? Dagli albori? Ho una mamma, che oggi ha 94 anni e fa ancora un sacco di cose, una piacentina che è venuta in Val di Fiemme per amore; ci veniva in vacanza e qui ha incontrato mio padre e si sono innamorati e sposati, con la benedizione di mio nonno perché a quel tempo si usava chiedere il permesso. Questa mamma ha governato per anni le cucine dell’hotel di famiglia, coniugando le tradizioni valligiane con quelle padane della sua terra. Quando faceva la polenta io salivo su una cassetta delle acque e le davo una mano, o meglio lo pensavo. Mi piaceva stare lì, con le mani in pasta ma, in realtà, quelle mani volevano diventare quelle di uno scultore e, quindi, mi sono iscritto, con la complicità della mamma ma non di mio padre, all’istituto di belle arti. Mio padre mi disse, chiaro e tondo, che “se avessi costruito delle marionette di legno lui avrebbe venduto gli alberghi”. Fu in quella frase che si compì il mio destino professionale; entrai in cucina, conobbi una persona straordinaria, Bruno Stofella, cuoco all’istituto alberghiero e proprietario di un ristorante, che mi ha indicato una strada diversa dalla cucina d’albergo, una cucina di ricerca, la nouvelle cuisine di bocusiana memoria. Grazie ai suoi consigli cominciai a comprare e leggere libri, il primo è stato il Codice Marchesi, la mia curiosità si liberò, iniziai a studiare e capire come assemblare piatti diversi da quelli tradizionali. Andai a fare degli stage in giro per l’Europa, da Ferran Adrià, da Alain Ducasse, ma erano tempi rubati alla gestione del mio primo ristorante, avevo 25 anni e mio padre aveva comprato un ristorante e me lo aveva dato da gestire; quando dico gestire significa che mi aveva dato anche il mutuo da ripagare. Il metodo veloce che aveva mio padre di fare le cose mi ha fatto diventare molto presto imprenditore; quando ci sono scadenze da affrontare e non vuoi mai fare brutte figure impari subito. Nel frattempo mi sono reso conto che amavo le erbe, avevo una zia botanica e un nonno micologo che mi hanno trasferito i loro saperi. Nel 1990 iniziai a praticare una cucina tradizionale con qualche innesto di erbe particolari per le quali ora ci conoscono tutti: per un semplice lichene, per un gelato alla corteccia o alla resina, per un’insalata fatta con diciotto erbe aromatiche, cinque bulbi e sette radici. Ora siamo la versione italiana di Marc Veyrat, ma i primi due anni, sono sincero, sono stati durissimi, non ero capito, ero considerato alla stregua di uno stregone. Un altro periodo difficile è stato il primo anno in cui abbiamo conquistato la stella Michelin, nel 2007 sul 2008; la gente del posto, i miei clienti di allora, pensavano che fossi diventato semplicemente più caro. Se avere la stella comportava quei risultati ne avrei fatto a meno, pensavo. Invece no, dal secondo anno arrivò tanta clientela diversa, più internazionale, più competente che ci ha dato e ci dà grandi soddisfazioni. Non si chiamava ancora El Molin il primo ristorante che ho comprato, l’edificio era un mulino del ‘600, della famiglia Betta che lo aveva tenuto in funzione negli ultimi due secoli, fino al 1975, ed era adiacente a Palazzo Riccabona dei conti austriaci Riccabona. Nel palazzo, comprato da mio padre, c’è il nostro albergo di famiglia, prima Centrale ora Excelsior. Mio padre era un imprenditore edile, con 200 dipendenti, e l’albergo lo vide come un investimento immobiliare ma poi lo tenne in gestione, grazie all’impegno di mia madre”.