Ora, immaginate quando la Corte di Gioachino ospitava cene con Giacomo Bologna, Luigi Veronelli, Gianni Mura, Giorgio Grai, Cesare Giaccone, fiumi di parole che confluivano in un mare di idee mentre le bottiglie vuote venivano messe per terra per far posto sul tavolo ad altre bottiglie.
Lui ha fatto il macellaio fino alla fine degli anni Settanta, poi la fortuna di conoscere Giacomo Bologna, il vignaiolo che reinventò la Barbera, che lo spinge a ridare nuova vita all’antica tradizione dell’oca, fino a battezzargli “Corte dell’Oca” il nuovo immobile acquistato per trasferirvi la propria azienda. Poi trova supporto in un bravissimo veterinario locale, al viturinari dottor Pietro Cervio, che considera un suo secondo padre. Con lui nasce l’idea del fegato grasso “Ficatum”, dal termine latino iecur ficatum, fegato (ingrassato) coi fichi. Plinio il Vecchio attribuisce al gastronomo romano Marco Gavio Apicio l’invenzione di cibare oche e maiali con fichi secchi per ingrossarne il fegato.
Gioachino ricorda ridacchiando sornione che Riccardo Riccardi, conte di Santa Maria di Mongrando, quand’era capo ufficio stampa della Martini e Rossi, diceva che gli “smutandati” (sanscoulottes) francesi dovevano mettersi il cuore in pace perché sono venuti a conoscenza del fegato grasso d’oca, e di molte altre cose di cucina, grazie a Caterina de’ Medici.
Sempre grazie a Giacomo Bologna nasce l’amicizia con Luigi Veronelli, e poi con padre Eligio, che all’epoca gestiva la comunità per tossicodipendenti nell’antico castello di Cozzo di Lomellina. Quando comincia a lavorare l’oca la tradizione sembrava estinta, nonostante una sagra che ogni anno cercava di riproporre quei prodotti.