Standardizzare, annullare il margine d’errore in un prodotto, essere impeccabili. Si direbbe ‘nulla di nuovo’ se si trattasse di presupposti per avviare un’industria alimentare. Se a sostenerlo è invece uno chef del calibro di Davide Scabin e se ‘l’industria’ in questione è uno dei suoi ristoranti, inutile dirlo, le reazioni cambiano. Eppure nessuno grida allo scandalo o si dimena sulla sedia quando, nel corso del suo intervento nella Milano di Identità Golose, lo chef torinese accosta la parola ‘serializzazione’ a ‘gastronomia’. Anzi, sul volto degli attenti ascoltatori si leggono prima la meraviglia, poi l’ammirazione per un pensiero tanto semplice all’origine, quanto rivoluzionario nell’applicazione.
“Essere un grande chef non vuol dire rendere un piatto unico e irripetibile, bensì essere in grado di riprodurlo”. Per rendere quel piatto ‘sempre buono allo stesso modo’ potrebbe essere sufficiente saper governare come si è sempre fatto le cotture, i volumi, gli strumenti. Ma c’è a chi, come Davide Scabin, piace stravolgere (e diremmo non troppo) la tradizione, ricorrendo a una tecnica spinta da un imprescindibile desiderio d’innovazione. Il suo far cucina ha preso spunto dalla ritualità casalinga del passato; quella attrezzata di grandi casseruole, mestoli in legno e cucine economiche, quella che si raccontava in casa ai commensali con sapori certi, sempre miracolosamente uguali e introvabili in qualsiasi altro luogo. Ci ha aggiunto la matematica e la fisica, lo studio e la ricerca, e forse anche un po’ di follia.
Pàcatacos & Chili Lampredotto e Spaghettone scuba oil, due modi per dare una lettura diversa della pasta, fare quello che ancora non era mai stato fatto né pensato, e conquistarsi la curiosità anche del pubblico più scettico. Chi non assaggerebbe un tacos ricavato da una pasta stracotta, frullata e modellata? O uno spaghetto conservato in vaso di vetro?
Ma è proprio perché è Scabin, e non percorre solo la via del ‘completamente nuovo’, che a Milano sceglie di provocare gli amanti del classico, come i veneratori della pasta all’amatriciana, proponendo un ‘Rigatone in pressione’. Sapere che è stato interamente preparato in pentola a pressione non fa rizzare i capelli a nessuno, se non per la sorpresa: il sapore è fin troppo fedele a quello a cui siamo abituati per perderci in critiche e non spolverizzare quell’amatriciana. Nessuna variazione di ingredienti, esecuzione facile e veloce, realizzabile da tutti. Inoltre, come dicevamo prima, adottare una modalità di cottura precisa, come questa, rende meno remota la possibilità di portare a tavola una pietanza pressoché identica a quella già servita una e più volte. Premessa: prima di dedicarsi a innumerevoli replicazioni del piatto, bisognerebbe perlomeno avvicinarsi alla formulazione della ricetta perfetta. E’ quindi d’obbligo abolire l’espressione ‘a occhio’ dal nostro vocabolario, e fondamentale segnare nero su bianco le proporzioni di sale, acqua e altri ingredienti. Su questo passaggio Scabin volutamente non ci aiuta. Sembra volerci congedare con un ‘a voi cari, ecco la tecnica, ma non le dosi!’.
Giulia Zampieri