Un rito di famiglia e di vicinato
L’usanza di preparare questo pane nelle famiglie della zona si è perpetrata come una sorta di rito - scandito come vedremo da diversi passaggi - che si ripeteva a cadenze stabilite, con il coinvolgimento di familiari e vicini di casa, principalmente donne, a cui in cambio veniva dato cibo o soltanto restituito il favore. I vecchi di oggi raccontano come sia stato naturale crescere dentro la cultura del pane carasau. Sin da bambini la mamma chiedeva loro di aiutarla e così loro hanno fatto con i propri figli. Nella stessa misura in cui hanno imparato a mangiarlo hanno imparato a farlo.
Ogni volta ne venivano preparati grandi quantitativi, poi puntualmente riposti e custoditi in cassapanche.
“Sa cotta”, l’originario processo di lavorazione del pane carasau
La conoscenza dell’impegno che comportano le produzioni in generale, e quelle più complesse in particolare, dovrebbe renderci più rispettosi di quel che portiamo alla bocca e di chi ci ha messo mano.
Quanto al pane carasau ci basti sapere che è sempre stato considerato e trattato come sacro, e per questo accompagnato durante la sua preparazione da preghiere e gesti scaramantici.
Si iniziava al sorgere del sole con l’impasto, in grandi contenitori di legno, con semola di grano duro, lievito madre e acqua (operazione denominata s’inthurta), seguiva poi un’energica e lunga lavorazione dell'impasto fino a renderlo liscio ed elastico (cariare). È qui che si determinavano la buona riuscita e la durata o meno del pane.
L’impasto veniva poi posto in contenitori di terracotta e ricoperto da teli di lana perché riposasse (fase della lievitazione, chiamata pesare, che significa alzare). Iniziata la lievitazione si procedeva con il ricavare dall’impasto panetti regolari, infarinati e riposti in canestri ricoperti da teli di lino o lana, perché continuasse la lievitazione (orire o sestare). Si passava poi alla stesura dei panetti, con l’aiuto di piccoli mattarelli e dei polpastrelli, fino ad ottenere dischi di pochissimi millimetri (illadare) poi depositati fra le pieghe di panni di lana lunghi anche 10 metri, creando pile di una decina di dischi o tundas.
A questo punto poteva avere inizio la fase della cottura, avendo preriscaldato il forno a legna, alimentato solo con legno di quercia o olivastro. Quando la temperatura si aggirava intorno ai 450/500° si poteva procedere con la prima infornata di una tunda che si gonfiava rapidamente come una palla (cochere). Questa, una volta sfornata, doveva essere sottoposta tramite un coltello ad un’operazione chirurgica di separazione delle due facce che la componevano. Ne uscivano due dischi con una parte liscia (esterno palla) e parte ruvida (interno palla). Fase certamente delicata perché si maneggiava un prodotto bollente su cui era necessario intervenire in velocità (fresare o calpire), prima che la palla si sgonfiasse e le pareti si attaccassero fra loro. Dopo la separazione si procedeva con il ripassare i dischi in forno per la seconda volta (carasare), per un tempo variabile a seconda dei gusti e delle zone di produzione. Di fatto la sfoglia di pane doveva diventare dorata con qualche puntino bruno in superficie e risultare croccante.