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Cinzia Battarra

12/07/2024

Cinzia Battarra

Ridurre, scrivere poco, utilizzare più immagini al posto delle parole. Questi sono i consigli che arrivano dal mondo digitale ma se una storia è bella per raccontarla bene non basta sintetizzarla. Pensavo a questo, arrivato a due ore di conversazione con Cinzia Battarra, chef e socia di Indaco, il ristorante nascosto nel cuore di Riccione, in Via Gramsci, a cinquanta metri da Viale Ceccarini. Nascosto perché così lo hanno voluto Francesco Ricci, Luca Gallucci e Cinzia Battarra, i tre soci che si sono avventurati in questo percorso nel 2018, portando con loro una parola chiave: bellezza.

Siamo in un pezzetto di parco dello storico Grand Hotel di Riccione, ora chiuso ma con la speranza che riapra; dove un tempo c’era la lavanderia dell’hotel ora sorge Indaco, un luogo dove “gli Dèi vedono bene quando la mano dell’uomo sa accarezzare le cose”, ha scritto un tale Louis D’Alessio sulla pagina Facebook di Indaco. Un tripudio di serenità, bellezza, armonia. Non è un caso che gli ospiti restino qui fino a notte fonda in estate, a chiacchierare dopo la cena, a bere uno degli strepitosi cocktail di Francesco, serviti in bicchieri che da soli varrebbero una visita. Oppure ad ascoltare Luca che racconta sempre molto volentieri, aggiungendo un po’ alla volta, la loro storia, di come si sono incontrati, di come stanno creando, ancora dopo sei anni, questo luogo. Mentre Cinzia, infaticabile, tiene accese le luci della cucina fino alle tre del mattino per dare il senso di un luogo che non manda via nessuno mentre fuori impazza la notte rivierasca. Come si fa a ridurre? Come si fa a non godere di una lettura che, mi auguro, faccia capire al lettore cosa significa lavorare per ore per far star bene le persone. Abbiamo scelto uno dei tre soci per raccontarlo, ma lo fa con voce corale. E quindi a lei, Cinzia Battarra, la parola. 

Cinzia Battarra

Prima di raccontare del sistema Indaco, ti va di spiegare ai nostri lettori come sei entrata nel mondo della ristorazione e quali sono state le tue esperienze precedenti?

“È importante una premessa, io vengo da un mondo professionale completamente diverso: liceo scientifico prima, corso per diventare tecnico grafico poi. Ho lavorato come graphic designer fino al 2004 poi mi sono iscritta a un corso di addetto alla ristorazione con competenze di gastronomo presso il Formal di Bologna. Nel maggio 2005 ho fatto il primo ingresso in una cucina professionale, quella di Locanda Liuzzi a Cattolica, per uno stage di tre mesi. Mi dissero: “guarda che c’è un ristorante che fa una cucina strana”, io andai a propormi e lo chef patron, Raffaele Liuzzi, a cui devo personalmente tantissimo, è stato il primo a darmi fiducia. Mi prese anche se aveva già stagisti di ALMA e mi disse che, secondo lui, avevo qualcosa di particolare e mi mise in pasticceria. Non sapevo neppure cosa fosse una comanda. Quando arrivava il foglietto, lo accartocciavo e lo buttavo. Ero fuori dal mondo, i corsi non ti insegnano realmente la pratica di lavoro. Come prima esperienza sono stata fortunata grazie alla pazienza di Raffaele che, finito lo stage, mi assunse per la stagione e lì cambiarono le cose, imparai in fretta. Dopo quella prima esperienza e l’esame del corso mi sono resa conto che questo lavoro mi piaceva. 

Cinzia Battarra

Mi iscrissero a un concorso della FIC – Federazione Nazionale Cuochi e i giudici vennero da me, alla fine, per dirmi che ero arrivata seconda ma che avrei potuto vincere se non avessi accumulato le penalità tecniche: io ero sempre quella che arrivava dal liceo scientifico, usavo più taglieri uno sull’altro, tagliavo i carciofi insieme al mio dito ecc… Ma la soddisfazione di quella vittoria-non vittoria mi spinse a capire sempre di più, a imparare velocemente. Dopo Locanda Liuzzi andai al Magnolia di Alberto Faccani a Cesenatico per un’altra stagione, dove capii che mi veniva molto naturale stare in cucina, lavorare anche 14 ore senza stancarmi. Poi fu la volta di Igles Corelli, alla Locanda delle Tamerici a Ostellato in provincia di Ferrara. Andai a pranzo con una mia amica che voleva condividere con me questo percorso. Il locale era di una bellezza sconvolgente, i piatti un’autentica meraviglia. Igles era in cucina, chiesi di faro uscire senza neppur sapere quale fosse la sua storia e gli chiesi se ci prendeva per uno stage. Lui mi disse che non era lui che decideva ma il suo sous-chef. Mi diede il contatto di questa persona, per nulla dolce, che mi disse: “devi dimostrare di saperci fare”. Mi convocò in un agriturismo biodinamico a Gubbio, fornitore della Locanda delle Tamerici, per tre giorni, la mia amica rinunciò, dove andai con lui a caccia di cinghiali, imparai a smontare le loro carcasse, a lavorare i conigli, senza fare una piega anche se amo tantissimo gli animali. In pratica feci tutto quello che mi si chiedeva, anche bere il sangue caldo del cinghiale. Ha visto fino a che punto ero disposta poi mi disse: “il tuo aspetto è diverso dalla tua persona. Puoi venire a fare lo stage”. Restai tre anni alla Locanda delle Tamerici, dal 2005 al 2007, e lì vidi davvero come funzionava una cucina. Feci una crescita rapidissima: due settimane ai primi, poi la pasticceria, infine divenni la sous-chef di Corelli. In un contesto dove la brigata mi vedeva come una minaccia e Igles che mi diceva di stringere i denti, di restare lì, mentre lui era in giro per il mondo a fare lezioni, a portare testimonianze. Il suo uomo, quello che mi mise alla prova, mi disse: “ti manderei via anche adesso perché sei di disturbo nella mia brigata, ma tu non fai niente di sbagliato per costringermi a farlo”. Io esigevo solo il rispetto! E Igles mi diede sempre più spazio e mi diceva che avevo una consapevolezza gustativa rara, che si acquisisce in molti anni e a me, invece, veniva naturale. Abbinavo sapori nella mia testa, prima ancora di assaggiarli. Questo era dovuto al fatto che ho sempre mangiato tanto e di tutto. Mio padre era agronomo e mi portava cose che, a quei tempi, erano sconosciute: da bambina ero l’unica che mangiava quinoa o topinambur”.

Cinzia Battarra

Poi ti faccio un’altra domanda rispetto a queste vicende ma vai avanti con la tua storia…

“Mentre ero in pasticceria alla Locanda delle Tamerici vinsi il concorso indetto da Barolo&Co. come Miglior carta dei dolci nella ristorazione italiana. Nel dicembre 2007 andai alla Vecchia Lugana di Pierantonio Ambrosi, sul Lago di Garda, come chef di pasticceria, e restai fino ad aprile 2008 quando chiuse la gestione di Ambrosi. Da lì andai in Gallura, a Tempio Pausania, per aprire un nuovo ristorante, Peperosso, che non aveva ancora un’identità precisa e poi si risolse in ristorazione tradizionale. Una scelta che non faceva al caso mio. Mentre ero lì venne a mangiare uno chef, Daniele Sechi, che mi disse di andare in Costa Smeralda, a San Pantaleo, dove il suo titolare voleva aprire un nuovo ristorante.  Feci il colloquio, mi assunse e quando arrivai, nell’aprile 2009 al ristorante Giagoni, mi disse che dovevamo ricostruire la brigata perché se n’erano andati tutti. Il motivo? Non volevano prendere ordini da una donna! Ricostruimmo la brigata, feci formazione del personale, creai il menu, feci una stagione ma c’era sempre tensione perché la mole di lavoro era tantissima e c’era chi, ogni giorno, non mi voleva bene e cercava di farmi le scarpe. Lo seppi solo alla fine quando il titolare me lo disse, aggiungendo che, pur non essendo d’accordo, la mia modalità di lavoro era la migliore. Lui aveva sostenuto, per l’intera stagione, che sbagliavo a mettermi alla pari con la brigata facendo anche lavori più umili. E invece, mi confidò, avevo ragione io e li ho capito come sono diverse le mentalità tra un cuoco fatto e finito che sostiene che lo chef ha un ruolo ben definito e da lì non si sposta e uno che arriva da altre esperienze! Venni via perché anche lì si era deciso di fare una cucina solo tradizionale. L’ultima esperienza, prima di tornare a Riccione, è stata a Corte San Ruffillo, in comune di Dovadola (FC), dove Sara Vespignani, architetto, ha ricevuto in dono dai genitori una casa colonica, ricavandone un agriturismo di lusso. Ho aperto io il ristorante e sono rimasta quattro anni. Un’esperienza bella ma molto difficile per le limitazioni di una cucina nell’agriturismo che, per legge, deve utilizzare in maggioranza prodotti propri. Lì ho imparato a fare anche le marmellate quando c’erano produzioni in eccesso. Dalla Costa Smeralda dove potevo comprare e usare qualsiasi materia prima a Corte San Ruffillo dove avevo questi obblighi ti cambia la visione stessa della cucina”.

Cinzia Battarra

Un percorso decisamente romanzesco il tuo, che apre una riflessione sul ruolo delle donne nella ristorazione. C’è chi dice che non è il problema ma io non ne sono molto convinto, soprattutto dopo che mi hai raccontato di te: tu cosa ne pensi?

“Il problema esiste e, in questi anni, si è accentuato per il modo in cui sono considerate le donne in questo periodo storico! Io ho fatto anche la ragazza immagine nelle fiere e questo mi ha aiutato moltissimo a prendere consapevolezza. Essendo quindi molto abituata a questa cosa quando sono entrata in cucina non ci ho dato molto peso. Fare la ragazza immagine ti porta ad avere esuberanza, apertura verso il mondo, tolleranza verso gli esseri umani, almeno fino a quando, come per me, distribuivo caramelle nelle fiere. Quando a un congresso medico mi si è avvicinato uno per darmi il numero della sua camera o quando il titolare dell’agenzia mi ha detto di portare il mio culetto a quel tavolo, le risposte sono state molto dure e ho lasciato immediatamente quel lavoro occasionale. Nelle cucine se sei graziosa sei simpatica ai maschi; se sei gentile sei poco sveglia; se sei dura sei, sempre per i maschi, una strega cattiva. In uno dei ristoranti dove ho lavorato mi sono sentita dire che ero una distrazione per la brigata, ma il problema non è mio! Ti racconto un episodio divertente successo in Sardegna: un fornitore mi dice di andare a chiamare lo chef e gli rispondo che sono io; lui mi dice di non scherzare e mi invita ad andare a chiamarlo; vado in cucina, torno con giacca e cappello e gli rispondo che fino a quando sarei stata lì lui non ci avrebbe più venduto niente! Io ho sempre dimostrato di saper fare e questo mi ha salvato da molte situazioni. Qui, finalmente, a Indaco nessuno mi manca di rispetto!”

Veniamo a Indaco, come nasce, quali sono i motivi che vi hanno portato a riconoscervi in questo progetto?

“Dopo aver fatto tutte le esperienze che ho raccontato sono rientrata a casa, per la voglia di tornare con la mia famiglia, con i miei genitori e dove mi sono fermata a lavorare nell’ambiente a me più consono rispetto a quello che la riviera offriva; nel bagno Flamingo Beach a Riccione, per una stagione, dove Francesco Ricci e Luca Gallucci erano i titolari. Con loro sono subito andata d’accordo perché, come me agli inizi, non avevano idea del casino in cui si erano messi; era spiaggia, ristorante, cocktail-bar, discoteca alla sera. Mi piaceva il loro modo di pensare perché accettavano il mio essere un mulo sul lavoro, c’era la mia faccia e ci tenevo che tutto andasse bene; al Flamingo ho trascorso migliaia di ore di lavoro, più di quelle della vita normale. Il rapporto più stretto era con Francesco perché era il più presente dei due ma ci scontravamo tantissimo anche se poi si trovava sempre la quadra. Facevo cucina massiva, non era la mia ma mi è servito anche questo. Dopo tre anni ho detto che sarei andata via, verso altri luoghi, altre proposte. Loro mi dissero che erano stanchi di quel tipo di gestione, che stavano pensando a qualcosa di diverso e mi proposero di restare per cercare qualcosa che fosse nelle attitudini di noi tre, entrando in società con loro. Non avevo mai pensato a un mio ristorante; a una mia idea di cucina si, ma non a un ristorante interamente di proprietà. Mi sono detta: “io sono particolare, ne ho trovati altri due particolari. Può funzionare”. 

Cinzia Battarra

E come avete trovato il locale?

“Questo posto ha fatto la differenza. Era abbandonato ma abbiamo sentito la vita di quello che c’era prima, la sua storia: ex-lavanderia del Grand Hotel; prima ancora era una polveriera. Abbiamo percepito l‘energia del luogo e abbiamo deciso. Il nome ce l’avevo già perché da piccola mi dissero che ero una bambina indaco. Siamo entrati dopo nove mesi a causa di tutti i lavori necessari. Ognuno di noi ci ha messo un pezzetto: a Luca è venuta in mente la parete nascosta, Francesco che è un po’ barocco ha iniziato a mettere un sacco di suppellettili, io avevo forse già più chiara in testa la visione di insieme. Lo abbiamo creato un po’ alla volta e adesso è così, in crescita continua”.

 

Hai detto che eri una bambina indaco: cosa vuol dire?

“Ai miei genitori dissero così. Una ragazza che faceva una tesi in psicologia cercava un po’ di campioni e io ero uno di questi. Lei mi disse che ero una bambina indaco. Era il periodo della new age e questa tipologia di bambini era appassionata alla natura, molto empatici ed effettivamente, nella casa di campagna dei miei nonni, io adoravo stare con le capre, mi piaceva tantissimo. Non ero una bambina asociale, io stavo con tutti ma se potevo scegliere io stavo con gli animali, mangiavo la frutta dalle piante. Mi chiedevo, da bambina, come si potesse soffrire così per qualsiasi cosa, ero ipersensibile.  Avevo una delle due nonne che non era molto dolce: mi schiacciava, davanti agli occhi, le lumache con i piedi e io piangevo. Fino a quando le dissi: se tu continui a schiacciare le lumache io taglio la testa a tutti i tuoi fiori. Lei ha continuato, io ho tagliato la testa ai fiori. Poi ho capito, pur bambina, che non dovevo mostrare alcuna fragilità, non dovevo più piangere se volevo salvare le lumache e così è stato. Ho iniziato a corazzarmi e questo mi serve ancora adesso”.

Torniamo a Indaco ristorante. Come avete pensato a tutte le azioni che danno a questo luogo la sua forte identità?

“Ognuno a modo suo. Francesco ha la passione per i bicchieri. Quanti miliardi di posti ha visitato per trovarli, bellissimi, che danno un tono ai suoi cocktail. Così come la carta dei gin, con la descrizione del sapore e della storia di ogni gin, un centinaio. I tavoli li ho disegnati io e poi ci siamo messi alla ricerca dei pezzi e degli artigiani che ce li costruissero: un’impresa vera e propria! Fino a quando non abbiamo trovato uno stabilimento enorme di sfascia-carrozze a Sant’Arcangelo dove c’era di tutto: semiassi di camion, molle, cilindri che, una volta ripuliti, sono diventati la base per i nostri tavoli, Ricordo la prima volta che siamo entrati nello stabilimento e il titolare ci guardava come pazzi. Ora è lui che ci chiama per dirci che ha dei pezzi che possono andar bene per noi. Luca si è occupato della parete che cela i bagni nascosti”.

 

Come crei le tue proposte e che nome dai alla tua cucina?

“Per risponderti utilizzo la visione di Luca che ha un padre compositore: secondo lui il processo creativo è identico. A lui viene in mente una nota e la trascrive, a me vengono in mente delle cose nel cervello: prima arriva un’immagine, ad esempio, e la disegno subito, per non dimenticarla. poi utilizzo quella definita da Igles Corelli come una consapevolezza gustativa rara e arrivano gli ingredienti. In questo mi ha aiutato molto una scelta che ho fatto per questo lavoro: la stagionalità per avere sempre un paio di mesi per visitare posti lontani e assaggiare le loro cucine. In Brasile, ad esempio, i sapori coinvolgono tutti i sensi e avevo un blocco dove annotavo le sensazioni. Non voglio che prevalga l’esotismo nei miei piatti. Il mango lo metto solo se è necessario, per dire. La mia cucina, a proposito di darle un nome, è come me: lucida, pulita, molto pensata e quello che penso poi si rivela nel piatto. Devono essere piatti fattibili e comprensibili da chiunque!”

Cinzia Battarra

La clientela come arriva da voi? Quali strategie mettete in campo per distinguervi in un luogo come Riccione, fortemente connotato per numero di esercizi pubblici?

“Con il passaparola. È un percorso più lento ma mille volte più soddisfacente. Le persone che invitano o ne parlano ad altre e altre ancora. Queste sono le relazioni che ci interessano e che ci coinvolgono. Negli anni scorsi Luca e Francesco volevano fare della pubblicità ma non sapevamo quale potesse andar bene per un locale come il nostro. Poi anche loro sono venuti dalla mia parte e abbiamo continuato con il passaparola”.

 

Cosa serve per resistere: coraggio, determinazione, formazione continua, armonia di vedute? Dammi una tua parola…

“Coraggio! Ne sono sicura! Un coraggio che, nella mia persona, è cresciuto grazie a una famiglia che, in tutte le scelte di lavoro che ho fatto, mi ha appoggiata, capita, supportata, mai giudicata. Mi hanno fatto credere di poter fare qualsiasi cosa io avessi voluto con la costanza, la volontà e la fatica. Devo molto ai miei genitori e a mio fratello che è la spalla della mia vita. Riconosco la mia fortuna, non è così comune. Con la stessa volontà e un po’ di fortuna ho incontrato Francesco e Luca, che è anche il mio compagno di vita, stiamo costruendo qualcosa di nuovo, in termini di bellezza e qualità. Un’altra parola è passione; senza passione non si può fare questo lavoro, è impossibile. Infine determinazione perché siamo sottoposti, ogni giorno dell’anno, tutti i giorni della tua vita, a un esame. L’ospite viene, si siede e, inevitabilmente, giudica. È una pressione che è meglio dimenticare altrimenti non si riuscirebbe ad andare avanti a lungo”.

Voi avete un menu degustazione perfetto, di sole cinque portate che riescono a raccontare tutto di voi, i cocktail di Francesco, la tua cucina, il racconto di Luca al tavolo; cosa funziona di più, il Degustazione o la carta?

“Abbiamo faticato un po’ ma ora il menu degustazione è il più richiesto. I motivi? Forse perché è corto, forse per quello che dici tu. Di certo perché Luca al tavolo è riuscito a trovare le formule per raccontarlo secondo le persone che sono al tavolo. La sua professione di educatore aiuta in tal senso. Questo ha fatto cambiare la percezione al punto che, oggi, quello più richiesto è il menu sorpresa, dove non raccontiamo in anticipo i piatti”.

a cura di

Luigi Franchi

La passione per la ristorazione è avvenuta facendo il fotografo nei primi anni ’90. Lì conobbe ed ebbe la stima di Gino Veronelli, Franco Colombani e Antonio Santini. Quella stima lo ha accompagnato nel percorso per diventare giornalista e direttore di sala&cucina, magazine di accoglienza e ristorazione.
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