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Fausto Arrighi

31/03/2023

Fausto Arrighi

Dal 1977 al 2005 ispettore della guida Michelin, poi, fino al 2012, direttore della stessa. 46 anni a strettissimo contatto con la ristorazione, perché anche dopo il pensionamento sei rimasto in questo ambito: prima di parlare della tua esperienza professionale più lunga, i 35 anni alla Michelin, parliamo del presente: cosa stai facendo ora?

“Adesso mi diverto, nel senso vero del termine. Seguo qualche ragazzo che vuole crescere, gli provo i piatti, faccio in modo che correggano qualche errore. È un processo abbastanza lungo, gli chef sono un po’ permalosi ma quando capiscono che non sono lì per fare il giudice, bensì per dare una mano, tutto diventa molto stimolante e diventa vero piacere da parte mia vederli accettare i consigli”.

 

Interni Ristorante Da VittorioInterni Ristorante Da Vittorio

Parlare della Michelin, molte volte, significa entrare in un terreno ancora, per certi aspetti, sconosciuto ma dove tutti, dall’esterno, vogliono dire la loro, soprattutto i giornalisti che scrivono di enogastronomia; c’è chi dice che gli ispettori sono pochi per esprimere un giudizio serio e oggettivo; c’è chi accusa la Rossa di essere troppo francese e poco italiana; c’è chi si erge a vero talent scout perché, nel totoscommesse che precede l’uscita della guida, aveva azzeccato i pronostici; c’è chi parla a vanvera, molti, moltissimi, perché in Italia, ancora nel 2023, ci sono persone che, pur non essendo mai entrate in questi ristoranti, parlano, parlano. Dal momento che non è cambiato molto, in termini di regole interne, da quando eri tu il direttore raccontiamola dal di dentro, cominciando con il fare chiarezza su un punto: la stella va allo chef o al ristorante?

“È un binomio: La stella è nel ristorante che, però, guadagna lo chef con la sua cucina. Ci sono tanti chef che dicono che sono stellati, pur non avendo più un ristorante di riferimento e questo è sbagliato. La stella resta al ristorante anche se lo chef va via, poi è compito degli ispettori capire se la cucina rimane stellata. Certo, è più facile mantenere una stella che c’è già anziché conquistarsela ma, appunto, deve mantenere quel livello di cucina che vale il viaggio. Poi c’è il caso degli chef-patron che si giocano sulla propria pelle il risultato finale; sono i più coraggiosi, se mi passi il termine, perché da noi i ristoranti stellati, a differenza della Francia, fanno solitamente piccoli numeri ed è, quindi, molto difficile riuscire a gestire il ristorante e a stare a galla, come si suol dire. Poi ci sono gli chef giovani, con idee e velleità di crescita che comportano il voler cambiare se nel ristorante dove si trovano non ci sono le condizioni per migliorare ancora di più”.

 

Come si diventa ispettore della Michelin? Ci sono corsi specifici di formazione?

“Bisogna prima di tutto avere la mente pulita, avere palato e forma fisica perfetta perché si viaggia molto. La formazione è interna all’azienda e le prime volte si esce sempre in due per confrontarsi e acquisire maggior conoscenza delle regole. Poi, dopo aver capito e assimilato i canoni della Michelin, si continua da soli”.

 

È un mestiere più divertente o più faticoso?

“Faticoso! Perché è un mestiere, non un divertimento. Lo si fa 365 giorni all’anno, è un lavoro metodico e spesso si fa sia pranzo che cena. L’ispettore non mangia solo nel suo piatto, deve osservare gli altri ospiti, vedere che piatti scelgono per capire la soddisfazione delle persone per avere la garanzia che il suo giudizio sia in qualche modo condiviso”.  

 

Per dare il giudizio definitivo quante volte si visita il ristorante?

“Più volte. Non si fa mai una visita unica, si prova in diversi momenti dell’anno, si crea un dossier e quando ci si riunisce per confermare o togliere una stella torna utile avere dei documenti davanti per dare un giudizio condivisibile con tutto il gruppo”.

 

A distanza di anni sveliamo una storia leggendaria: perché Gualtiero Marchesi non volle più le stelle Michelin?

“Lo stesso Marchesi lo ha detto: nel momento in cui non aveva più le tre stelle e denotava una certa stanchezza preferiva non essere più giudicato. Mi era venuto a trovare in ufficio ma non mi fece alcuna domanda in merito. Lui era un’icona, aveva portato le tre stelle in Italia e, inter-nos, non sarebbe mai sceso sotto le due stelle. Ma era a fine carriera, i nostri lettori, in molti, ci scrivevano che non si mangiava più come si aspettavano. Teniamo sempre presente che si tratta di ristoranti dove si spende molto e, di conseguenza, l’esigenza è più forte da parte della clientela”. 

 

Ti sei mai sentito potente?

“No! E ti dirò di più, siamo qui, a Chianina &Sirah, dove mi sono messo la giacca da comis di cucina per stare in mezzo ai giovani cuochi che hanno fatto la cena inaugurale. All’inizio erano in soggezione, poi hanno capito che ero lì per divertirmi insieme a loro, condividendo i loro sogni”.

 

C’è chi dice che 80 ispettori sono troppo pochi per essere in grado di dare giudizi seri e certificati? Com’è la vita di un ispettore?

“Il giudizio è sempre serio e gli ispettori sono sufficienti per provare i ristoranti che meritano la stella o i bib gourmand. Poi è tutto relativo; persone che provano nove ristoranti a settimana alla fine dell’anno hanno fatto un grande lavoro. L’aspetto positivo è quella dell’essere anonimi, mangi, paghi il conto, te ne vai. In un mondo dove la visibilità è imperante loro sono sempre e comunque stati in disparte e questo non è assolutamente negativo”.

 

Oggi il ruolo delle guide è cambiato, il digitale, le persone che viaggiano molto più di un tempo, le critiche affidate, in certi casi, a giovani in cerca di un posto nel mondo che non arriva: qual è la tua opinione in proposito?

“Ci sono troppe persone che cercano di fare questo mestiere senza averne le competenze. Un mondo che probabilmente imploderà perché fare una guida è molto impegnativo e costoso e dare un giudizio è una cosa seria, imparare a leggere un menu non è facile, occorrono anni di impegno quotidiano e non si può lasciare in mano a critici occasionali questa professione. Infine serve indipendenza per fare una guida!”.

 

Come è cambiata la cucina italiana nei tuoi 46 anni di partecipazione attiva in questo mondo?

“Tantissimo! Ricordo che, all’inizio della mia carriera, guardando le proposte dei ristoranti, il pesce si mangiava solo lungo le coste, il resto dell’Italia si divideva tra carni bianche di pollo e piatti con il nome delle città; eravamo poveri, con una cucina da casa. Poi c’è stato il momento delle mode che non sono nostre: le cucine del nord-Europa, le schiume, ecc… Ora c’è finalmente una grande attenzione al territorio, alle materie prime del nostro Paese. E dobbiamo esserne orgogliosi e saperla vendere bene al turismo internazionale”.

 

Un’ultima domanda: perché non è ancora stato scritto un libro sulla storia della ristorazione italiana?

“Come dicevo prima, perché la nostra ristorazione ha una vita molto breve. È solo con Marchesi che la ristorazione italiana ha trovato un ruolo ben definito, con l’impiattamento e una nuova cucina. Prima era una cucina di casa trasposta nel ristorante. Cantarelli aveva due stelle Michelin ma se, per ipotesi, mangiassi oggi la sua cucina di stelle forse non ne avrebbe nessuna. I grandi chef dell’epoca uscivano dalle case nobili o dell’alta borghesia, cosa che i francesi avevano fatto due secoli prima”.

a cura di

Luigi Franchi

La passione per la ristorazione è avvenuta facendo il fotografo nei primi anni ’90. Lì conobbe ed ebbe la stima di Gino Veronelli, Franco Colombani e Antonio Santini. Quella stima lo ha accompagnato nel percorso per diventare giornalista e direttore di sala&cucina, magazine di accoglienza e ristorazione.
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