“I giovani cuochi non assaggiano mai”. Questa affermazione l’hanno fatta due autorevoli cuochi, impegnati entrambi nella presidenza di importanti associazioni di categoria e, di conseguenza, consapevoli delle regole di questo settore, a margine di un convegno.
Mi ha lasciato stupefatto, non ci avevo mai pensato per il semplice fatto che assaggiare è una delle condizioni che ritengo fondamentali per svolgere la professione di cuoco.
“Sono solitamente ineccepibili sul piano della tecnica ma non assaggiano” hanno precisato.
Da giorni non mi levo dalla testa quelle affermazioni e, per capire meglio, ho cercato su diversi libri professionali se il termine assaggio venisse citato e quante volte. Pochissime, nei libri che raccontano la storia dei cuochi il termine non è quasi mai contemplato se non in forma rapida.
Eppure, leggendo il dizionario, in questo caso il Garzanti, assaggiare significa: gustare un cibo o una bevanda in quantità molto piccola, per riconoscerne, controllarne il sapore e la qualità. Esattamente quello che dovrebbe fare il cuoco prima di far uscire un piatto al tavolo.
Cosa è cambiato? Cosa consente oggi a un cuoco di affinare sempre di più le sue papille gustative? La teoria? Quella che sta sostituendo, in modo inesorabile, le ore di laboratorio di cucina negli istituti alberghieri?
Perché, probabilmente, anche questo fatto, avere pochissime ore di laboratorio nel percorso scolastico per diventare cuoco ha qualche colpa.
Oppure la tecnica che permette di avere forni e altri strumenti di cottura talmente precisi da non sentire il bisogno dell’assaggio?
O, peggio ancora, il timore di ingrassare assaggiando più volte durante la giornata lavorativa?
Di una cosa restiamo certi. Per capire, conoscere, distinguere, è necessario assaggiare. Non è per un caso che abbiamo qualcosa come 8.000 recettori sulle nostre papille.
Assaggiare vuol dire acquisire memoria, ricordare quel determinato sapore per abbinarlo coerentemente ad altri nel momento in cui si crea una ricetta.
Coerentemente! Con equilibrio, sapendo che quel sapore è anche un elemento che può incidere sulla salute delle persone. Sono troppe le volte che, con il menu degustazione, ci troviamo a ingurgitare cibi che stanno bene solo come estetica del piatto. E qui entra in gioco la teoria che realizzare un piatto equivale a comporre un’opera d’arte. Teoria che, negli ultimi anni, ha generato una montagna di equivoci sul ruolo dei cuochi.
"Essendo uno chef, i sapori e i piatti nuovi mi ammaliano e il Madrouba è stato uno dei primi che abbia mai assaggiato quando mi sono trasferito in Qatar. I sapori decisi e caldi, che sono una prelibatezza per il mio palato, mi hanno affascinato all’istante. Una volta accesa la curiosità, ho collaborato con uno chef qatariota del posto che mi ha svelato i segreti delle ricette tradizionali. È stato in quel momento che ho scoperto che la mistura cremosa del Jareesh è composta da 17 spezie differenti, accuratamente selezionate e dosate per diventare quell’intenso mix unico nel suo genere. Mentre stavo lavorando alla mia rivisitazione personale di una ricetta così preziosa, mi sono recato al Souq di persona per cercare le 17 spezie necessarie. Il risultato finale è una versione del Madrouba originale che fiorisce dai suoi sapori antichi e si completa con pezzettini di pollo riproposti con diverse tecniche di cottura. Una vera gioia per gli occhi, ma soprattutto per il palato”. A raccontare questo episodio, indicativo di quello che deve fare un cuoco, è Pino Lavarra, chef italiano pluristellato che mette al centro del suo lavoro tutti i sensi ma dando al palato il compito principale.
C’è da riflettere!