Viviamo in un periodo storico in cui l’omogeneità è quasi sempre la strada più comoda. La sua alternativa, ovvero la difformità, è seminata a spaio e raramente viene praticata in modo sano. O meglio, sentito.
Se fate appello ai tanti esempi che popolano le cronache vi sembrerà chiaro: essere divergenti nel 2025 è più un esercizio di stile; è cucirsi addosso abiti per forza alternativi, perché così si emerge, si fa parlare di sé, e le foto bucano lo schermo.
Sono pochi quelli che nella divergenza, anche quando ha tratti duri e fastidiosi, trovano ricchezza. Spesso sono figure silenziose, pacate, defilate. Vi starete chiedendo cosa c’entra questo preambolo, questo grande braccio di ferrò tra omogenia ed eterogenia, con un ristorante della Val Trompia, nell’alta bresciana, inaugurato nel 1998: La Madia di Brione. Detto e servito.
Dal primo giorno a oggi con lo stesso faro
Scriviamo spesso di insegne bollate da un’evoluzione, in cui sono le nuove generazioni o l’innesto di nuove figure a guidare il cambiamento. La particolarità di Michele Vallotti, che ha voluto e cresciuto La Madia, è che in questi ventisette anni di attività, anche senza variazioni generazionali, ha visto nell’evoluzione l’unico binario percorribile.
Non per stare al passo con i tempi, come tuonano centinaia di recensioni di ristoranti e di siti web, bensì perché quando c’è evoluzione nel pensiero, nell’etica, nel modo di intendere le cose, non può che esserci anche nel proprio lavoro.
Fare ristorazione, da questo punto di vista, è un onere ma anche un onore: sono talmente tanti gli aspetti su cui si può intervenire accordandosi alla propria etica che è difficile trovare un altro mestiere così completo. Il cibo, l’accoglienza, l’origine degli alimenti, il rapporto con i produttori, la cura della tavola, le responsabilità verso le persone: quanti campi d’azione include un’attività di ristorazione?!
Chi scrive non ha avuto modo di frequentare La Madia agli albori, e nemmeno dopo i primi anni di apertura, ma è dal racconto carpito qua e là, e dalle stesse parole di Michele, che si deduce il nuovo che è stato innestato. Gli chiediamo di partire da una delle tanti frasi che connotano il suo pensiero: la cucina imperfetta e variabile.
“Ho sempre avuto questo approccio, di accettazione della volubilità della cucina, anche quando all’inizio proponevo piatti sensibilmente diversi, ma con il passare del tempo i valori si sono plasmati e definiti. Più che un pensiero è un atteggiamento che ho dentro, a livello sentimentale, rispetto alla cucina ma prima ancora nei confronti degli alimenti vivi. Quello che facciamo qui non è promuovere o ricercare dei difetti ma accettare che le materie vive non siano sempre uguali, precise, perfette. È proprio in quel tratto, quello dell’imperfezione tollerata, che sono convinto si giochino le emozioni. Quando si rispetta la vitalità del cibo automaticamente si accetta di coglierne tutte le sfumature. Faccio un esempio: se decido di acquistare il formaggio da un casaro che lavora in un certo modo accetto di portare in cucina tutti i possibili tratti di quel prodotto, in cui incidono tanti fattori, dalla stagionalità alla tipologia di pascolo”.