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La Madia a Brione

13/04/2025

La Madia a Brione

 

Viviamo in un periodo storico in cui l’omogeneità è quasi sempre la strada più comoda. La sua alternativa, ovvero la difformità, è seminata a spaio e raramente viene praticata in modo sano. O meglio, sentito.
Se fate appello ai tanti esempi che popolano le cronache vi sembrerà chiaro: essere divergenti nel 2025 è più un esercizio di stile; è cucirsi addosso abiti per forza alternativi, perché così si emerge, si fa parlare di sé, e le foto bucano lo schermo.
Sono pochi quelli che nella divergenza, anche quando ha tratti duri e fastidiosi, trovano ricchezza. Spesso sono figure silenziose, pacate, defilate. Vi starete chiedendo cosa c’entra questo preambolo, questo grande braccio di ferrò tra omogenia ed eterogenia, con un ristorante della Val Trompia, nell’alta bresciana, inaugurato nel 1998: La Madia di Brione. Detto e servito.

Dal primo giorno a oggi con lo stesso faro
Scriviamo spesso di insegne bollate da un’evoluzione, in cui sono le nuove generazioni o l’innesto di nuove figure a guidare il cambiamento. La particolarità di Michele Vallotti, che ha voluto e cresciuto La Madia, è che in questi ventisette anni di attività, anche senza variazioni generazionali, ha visto nell’evoluzione l’unico binario percorribile.
Non per stare al passo con i tempi, come tuonano centinaia di recensioni di ristoranti e di siti web, bensì perché quando c’è evoluzione nel pensiero, nell’etica, nel modo di intendere le cose, non può che esserci anche nel proprio lavoro.
Fare ristorazione, da questo punto di vista, è un onere ma anche un onore: sono talmente tanti gli aspetti su cui si può intervenire accordandosi alla propria etica che è difficile trovare un altro mestiere così completo. Il cibo, l’accoglienza, l’origine degli alimenti, il rapporto con i produttori, la cura della tavola, le responsabilità verso le persone: quanti campi d’azione include un’attività di ristorazione?!
Chi scrive non ha avuto modo di frequentare La Madia agli albori, e nemmeno dopo i primi anni di apertura, ma è dal racconto carpito qua e là, e dalle stesse parole di Michele, che si deduce il nuovo che è stato innestato. Gli chiediamo di partire da una delle tanti frasi che connotano il suo pensiero: la cucina imperfetta e variabile.
“Ho sempre avuto questo approccio, di accettazione della volubilità della cucina, anche quando all’inizio proponevo piatti sensibilmente diversi, ma con il passare del tempo i valori si sono plasmati e definiti. Più che un pensiero è un atteggiamento che ho dentro, a livello sentimentale, rispetto alla cucina ma prima ancora nei confronti degli alimenti vivi. Quello che facciamo qui non è promuovere o ricercare dei difetti ma accettare che le materie vive non siano sempre uguali, precise, perfette. È proprio in quel tratto, quello dell’imperfezione tollerata, che sono convinto si giochino le emozioni. Quando si rispetta la vitalità del cibo automaticamente si accetta di coglierne tutte le sfumature. Faccio un esempio: se decido di acquistare il formaggio da un casaro che lavora in un certo modo accetto di portare in cucina tutti i possibili tratti di quel prodotto, in cui incidono tanti fattori, dalla stagionalità alla tipologia di pascolo”.

 

La Madia a Brione
Michele VallottiMichele Vallotti

Una cucina che è tante cose
L’orientamento gastronomico di questi anni, diciamocelo, è andato per buona parte nella direzione opposta: pulizia, architettura dei sapori, millimetri di alimenti abbinati a millimetri di altri alimenti su cui si è lavorato profusamente cercando l’ineccepibilità. Il ritorno all’interesse per l’artigianalità ha cambiato un po’ il passo, re-introducendo il valore del pezzo unico, più ruvido e impreciso, ma spesso buono, anzi estremamente buono. Si è tutt’altro che estinta la fetta di fine-gastronomy, come vi abbiamo raccontato più volte (e non sarebbe neanche corretto avvenisse) ma i termini che circolano da qualche anno rivelano matrici diverse.
La cucina di Michele è tante cose, ma lo è da tempo. Lo raccontano le scritte impresse sulle pareti della sala e un piccolo manifesto fatto recapitare al tavolo poco prima di riconsegnare i cappotti.
"I piccoli produttori artigianali del territorio sono la condizione vitale per una cucina autentica e onesta. I loro prodotti, lontani dagli standard e sempre diversi; solo verdure stagionali, il più possibile di varietà antiche; carne (poca) di animali allevati in libertà e in condizioni naturali; farine buone combinate a lievito madre fatto in casa; l’attenzione al selvatico inteso come erbe, bacche e quanto il territorio offre di suo; l’utilizzo di fermentazione naturale e spontanea di verdure e bevande alternative; formaggi a latte crudo da piccoli produttori; predilezione per vini biodinamici e naturali di viticoltori artigianali. E ancora: utilizzo della tecnologia misurato e l’assenza di additivi e conservanti…”.
Nessuna di queste annotazioni deriva da emulazioni o mode, come dicevamo prima, ma dal sentito, dalla spinta che ti direziona nel prendere le scelte, dallo studio e da tanta, tanta ricerca. 

Il racconto è un proposito educativo

Una bilancia antica, gloriose tome, setacci, vasi in fermento, quadri in legno, zuppiere, mestoli e utensili di cucina o da lavoro… sarebbe difficile riepilogare tutti i particolari contenuti nella sala de La Madia, che ti avvolge con fattezze quasi da museo popolare.
Tuttavia c’è un elemento che proprio non si lava via dal libretto dei ricordi: il calore. Quando si fa ingresso in sala, dopo aver goduto del panorama fuori, il tepore trasuda dalle pareti e dai gesti.
“La sala, intesa soprattutto come persone, è fondamentale nella vita di un ristorante” riprende Michele. “La percezione del cliente è filtrata da chi si trova davanti e buona parte della riuscita di un momento a tavola si gioca sulla capacità della sala di essere empatica. Poi c’è tutta la parte di traduzione del lavoro svolto in cucina: chi è fuori si fa eco del nostro impegno e delle nostre scelte”.
Mentre parliamo, Michele sta preparando un miso che sarà pronto tra tre anni. Diventa il pretesto per mettere il dito nel tempo.
“La cucina come la intendiamo noi lavora lentamente. Tantissime delle nostre preparazioni richiedono tempo, sedimentazione, attesa. Credo che, in generale, ci si debba rieducare al tempo, alla pazienza, e pure agli errori. Siamo nell’era del tutto e subito ma è evidente che qualcosa in questo metodo sia compromettente”.

I piatti che escono dalla cucina de La Madia, ad essere sinceri, sanno esprimersi da soli. C’è gola, sorpresa, intensità. Penso agli spaghetti mandorle e siero, al cavolo riccio al barbecue, e a tante altri bocconi che riconducono sempre a qualcosa di conosciuto pur essendo nuovi. Ma a parte questa capacità di auto-narrazione comprendiamo (e sottoscriviamo!) l’esigenza di un racconto di sala preciso, lungo, che parte dalla radice delle cose. Non c’è voce tra quelle che arrivano al tavolo che non sappia spiegare con precisione metodi, ispirazioni, tecniche, origine delle idee. E finisce che ti senti veramente in un luogo speciale, in cui piacere e significato convivono.
 

La Madia a Brione
La Madia a Brione


Tra sostenibilità reale e difformità
Oggi si vuole rendere tutto facile e c’è anche la tendenza a lavarsi la coscienza con poco. Io sono convinto che adottare una sostenibilità reale, in un contesto economico come quello attuale, implichi fatica e rinunce. Se si vuole dare un senso alla sostenibilità c’è un prezzo da pagare. Per esempio si devono fare i conti con le materie che cambiano, che non si presentano sempre come ci si auspicherebbe; ma anche con l’impegno di acquistare prodotti interi, non processati. Potrei farti un lungo elenco”. 

Ci perdiamo qualche minuto a parlare della genesi dei piatti di Michele; a discutere sull’importanza di una cucina completa dal punto di vista sensoriale, che contempli acidità, amaro, dolce, salato per riavvicinare le persone alla complessità. Alle note dimenticate. Viene a questo punto spontaneo chiedergli che rapporto abbia con le cucine degli altri.
“Se non sono qui, o in laboratorio, sono fuori a provare altri locali!” ironizza.
“Quando esco mi relaziono sempre con interesse. Sono felice se trovo un pensiero in linea con il mio ma, onestamente, lo sono ancora di più quando è diverso. È così: se c’è diversità ci possiamo migliorare”.
Una legge di difformità che se entrasse in vigore su larga scala potrebbe rendere tutto un po’ migliore. E non stiamo parlando ‘solo’ di cibo.

a cura di

Giulia Zampieri

Giornalista, di origini padovane ma di radici mai definite, fa parte del team di sala&cucina sin dalle prime battute. Ama scrivere di territori e persone, oltre che di cucina e vini. Si dedica alle discipline digitali, al viaggio e collabora con alcune guide di settore.
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