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Le verdure fermentate

17/10/2024

Le verdure fermentate

Fermentare è un termine con cui gli italiani hanno poca confidenza. O meglio, ce l’hanno, ma per molti, al di fuori di specifici settori, interessa più una sfera culturale inconsapevole che l’uso linguistico corrente. Si ingoia, si gode ogni giorno di prodotti fermentati, ma si tiene anche a buona distanza questa parola un po’ chimica, un po’ fredda, a cui avvicinarsi cautamente. Eppure fermentare, dal latino fervere, ha una traduzione più confortevole di quanto molti immaginino: significa ribollire. È un’espressione con cui i romani indicavano il moto tumultuoso del mosto in fase di fermentazione. Voi, che lavorate nel mondo del vino, o della birra, del pane, o in cucina, sapete che la fermentazione è il perno attorno a cui ruota il nutrimento buono dell’uomo. La custodite gelosamente, è il brio da cui dipendete, da cui nascono i vostri prodotti. E allora perché, nel nostro Paese, aleggia una tremenda diffidenza attorno alle verdure fermentate

Prendere confidenza nell’epoca dell’asettico 

La risposta è semplicissima: siamo immersi nell’era dell’asettico. Nelle righe che seguono faremo cenno a questa resistenza culturale - scoprendo che le cose stanno cambiando - ma il proposito che ci diamo è quello di raccontare le verdure fermentate, le loro speciali proprietà, e soprattutto capire come educare il pubblico professionale e i clienti dei locali alla loro auspicabile presenza.
Per farlo non potevamo che avvalerci di una voce esperta: Flavio Sacco, biologo, con un Dottorato di ricerca (PhD) in Biodiversità ed Evoluzione, ideatore di Orto Fermentato, una linea di verdure biologiche fermentate naturalmente. Flavio è un grande appassionato di fermentazioni e alimentazione sana. E la prima cosa che mette in chiaro, rispetto al suo impegno professionale, è il desiderio di dimostrare al mondo che i microbi sono una parte necessaria e bella della vita di tutti i giorni.

“Veniamo da anni di errata narrazione. Anzi, di vero e proprio terrorismo mediatico che ha demonizzato i batteri. È ora di riabilitare questi microrganismi, di dare loro la giusta considerazione, perché hanno un ruolo positivo fondamentale nella vita di ogni essere umano”.
Il suo rapporto con la fermentazione inizia piuttosto presto, nel corso di viaggi e permanenze lunghe in Paesi in cui la fermentazione dei vegetali è consuetudine, per ragioni di conservazione e, spesso, sopravvivenza.
“Sin da piccolo ho bazzicato nel mondo della ristorazione ed ho sempre nutrito un interesse per il cibo. Grazie alla mia famiglia sono entrato in contatto con i prodotti fermentati. Per esempio in Congo, dove è uso comune fermentare la manioca. Sono tante le aree africane, così come quelle asiatiche, in cui si fermentano verdure e prodotti cerealicoli. In alcuni Paesi africani ad esempio abbiamo un piatto tipico, chiamato injera, che è a base di un impasto di farina fermentato. Ecco una prima osservazione che vi propongo: i popoli che ne fanno uso e consumo non hanno bisogno di associare la parola ‘fermentato' alla materia prima sottoposta a questo processo. La chiamano in altro modo, segno che questi cibi appartengono strettamente alla loro cultura. D’altronde… noi quando vogliamo riferirci al vino o alla birra le chiamiamo bevande fermentate?!”. 
L’importanza delle parole, e del renderle appetibili, non è un fatto secondario. Ma ci torneremo più avanti. Capiamo ora cosa si intente per verdure fermentate. 

Flavio SaccoFlavio Sacco

Cosa sono

“Mi vesto da biologo. Sono vegetali sottoposti a un processo che permette di conservarli a lungo termine. Questo processo, la fermentazione, sviluppa diversi composti che cambiano in parte il sapore, modificano la disponibilità di alcune sostanze e migliorano gli aspetti nutrizionali e salutistici di tali alimenti. Inoltre, la fermentazione arricchisce di batteri benefici il nostro microbiota intestinale, un vero e proprio ecosistema alla base della nostra salute e del sistema immunitario”.
Come saprete, è rilevante capire quale tipologia di fermentazione venga adottata.
“Si può fermentare in due modi, analogamente a quanto avviene per esempio nella vinificazione: con batteri selezionati o favorendo la proliferazione di batteri lattici naturalmente presenti. Personalmente mi sono concentrato sulla seconda strada, quindi sulla fermentazione naturale, grazie alla quale le verdure raggiungono una ricchezza microbiologica considerevole: in una porzione di soli 30 grammi si raggiungono fino a 4 miliardi di fermenti lattici vivi di moltissimi ceppi diversi”.

Ed è proprio la biodiversità l’elemento che Flavio si è imposto di tutelare nel progetto Orto Fermentato, nato sotto al cappello dell’azienda LIFe – Laboratorio Italiano Fermentati, da poco acquisita dal gruppo Named, polo nazionale del benessere naturale.
“La presenza così massiccia ma anche diversificata di fermenti è un’informazione che veicoliamo sempre a chi intende acquistare i prodotti Orto Fermentato. Alimentare il nostro microbiota tenendo conto della sua complessità è un aspetto che oggi sappiamo essere importante anche per ostacolare l’insediarsi di alcune patologie. Pertanto stiamo parlando di un modo di alimentarsi che fa davvero bene”.
Già questo dovrebbe basterebbe per approssimare alle verdure fermentate un cuoco attento alla componente salutistica della sua cucina. Ma questi alimenti possiedono anche un interesse puramente gastronomico, se analizziamo le loro caratteristiche organolettiche.
“Attraverso la fermentazione naturale le verdure amplificano il sapore e diventano piacevolmente acide, ma più delicate di un sottaceto. Il consiglio è quello di non sottoporle a cottura se non si vogliono alterare le proprietà microbiologiche. Se invece non si vuole tenere conto di ciò, quindi si desidera servirsene come ingrediente per il solo scopo culinario, possono essere impiegate in vario modo, per esempio infornandole o scottandole in padella. Si hanno naturalmente delle evoluzioni al gusto differenti e si attenua la componente acidula”.

Le verdure fermentate

Autoprodurre o affidarsi

Non è raro sentire un cuoco dire orgogliosamente “Questo kimchi lo facciamo noi”.

Ecco con Flavio scopriamo che l’autoproduzione di verdure fermentate nasconde molte insidie.
“Ho scritto un libro ‘Fermentare le verdure’ in cui spiego come far fermentare, quale sale utilizzare, come tagliarle, i problemi comuni che si incontrano nelle fermentazioni. Può essere una guida per chi vuole provare anche con ingredienti inusuali. Poi, naturalmente, un’attività di ristorazione necessità di costanza, food cost, sicurezza alimentare…”.
Come spesso ci siamo trovati a rimarcare in questo magazine, è importante lasciare spazio a chi è competente e specializzato in una produzione. Continua Flavio:

“Credo sia utile che un cuoco provi a fermentare ma deve essere consapevole che vi sono dei rischi. L’ortaggio fermentato è una materia viva e per questo delicatissima. Inoltre il risultato non è sempre garantito: le variabili che incidono nella fermentazione sono molte e può essere che qualcosa vada storto. A volte si rischia di lavorare, scombinare la propria routine in cucina… e ottenere poco. Sul mercato ci sono ormai tanti prodotti affidabili che consentono di risparmiare tempo, energie, scongiurare eventuali sprechi e possono essere combinati ad altre preparazioni traducendosi in piatti personali e creativi”.
Queste interessanti combinazioni non accadono solo in cucina. Ci viene in mente il gelato di Stefano Guizzetti, fondatore di Ciacco Lab, che propone (quando è stagione) il gusto Red Hot Kimchi Pepper, ossia fragole e kimchi, in cui la dolcezza della prima mitiga le note pungenti del secondo. Oppure ci vengono in mente le proposte di viennoiserie e le focacce di Aurora Zancanaro del micropanificio LePolveri, che in questi anni ha collaborato attivamente con Flavio. Il terreno della sperimentazione, anche sull’impiego gastronomico, è ancora fertilissimo.

Le verdure fermentate

Le verdure fermentate nella ristorazione

Datare la comparsa delle verdure fermentate nei menu dei ristoranti italiani non è così semplice e probabilmente nemmeno utile. Scateneremmo la consueta gara a chi è stato il più innovativo e avanguardista. Il punto è un altro: come possiamo avvicinare le persone, i clienti di un locale, a una categoria di prodotti che nell’immaginario comune sono così lontani culturalmente?

Flavio, forte del dialogo con i ristoratori, ha la sua opinione: “Innanzitutto ti devo far ricredere. Negli ultimi anni i professionisti stanno stemperando lo scetticismo, come dimostra l’interesse per i corsi di formazione e per le varie iniziative formative che conduco. Al massimo ciò che si teme è che il cliente del proprio locale non possa capire/apprezzare il prodotto. E quindi non lo si impiega”.
Sono svariati i ristoranti in cui però, dopo una resistenza iniziale, si è superato lo scoglio.

“Al cuoco che vuole inserirle nel menu consiglio di provare, assaggiare tutto ciò che si trova in giro per creare dei riferimenti gustativi. Lo stesso vale per il kombucha, una bevanda fermentata preziosissima. Poi bisogna lavorare sulla comunicazione, far comprendere che non c’è nulla di estremo dietro a un prodotto fermentato e che nella nostra abitudine alimentare ne consumiamo già moltissimi. Semmai c’è un nutrimento che fa bene, ha carattere, è appagante”.
A questo punto chiediamo a Flavio, prima di congedarlo, quali consigli elargirebbe al ristoratore che apprezza questi ingredienti ma non sa come proporli.
“Credo che un buon metodo sia evitare di utilizzare la parola verdure fermentate e citare semplicemente il tipo di pietanza che si inserisce nel piatto. Per esempio inserire la parola kimchi e poi, con accortezza, spiegare al cliente di cosa si tratta. Indubbiamente molto fa la capacità di raccontare il prodotto creando confidenza e non diffidenza. Per fare cultura c’è bisogno di piccoli investimenti: tempo, pazienza, concedere qualche assaggio… ma non è forse questo il senso di un lavoro fatto bene, con prospettive evolutive?”.
A proposito di questo, vi lasciamo con un esempio abbastanza lampante di avvicinamento improbabile ma riuscito, nella serie Netflix Chef’s Table dedicata al mondo pizza. L’episodio 3 ospita Ann Kim, pizzaiola del Minnesota diventata famosa per le sue pizze. In particolare, la notorietà di Ann nasce dall’aver combinato il cibo più popolare al mondo, la pizza, ad un altro cibo estremamente popolare, ma in Korea e fino ad allora non negli Usa: il kimchi. Ann Kim si è sempre affidata a un concetto ideale per seminare e consolidare una contaminazione gastronomica anche quando il popolo sembra resistente.
Ann dice “Se si trova sulla pizza ti fidi ciecamente”. Ed è vero.

Perché non ideare piatti semplici, comprensibili al nostro pubblico, combinando pietanze note a questi prodotti straordinari?  

 

Le verdure fermentate
a cura di

Giulia Zampieri

Giornalista, di origini padovane ma di radici mai definite, fa parte del team di sala&cucina sin dalle prime battute. Ama scrivere di territori e persone, oltre che di cucina e vini. Si dedica alle discipline digitali, al viaggio e collabora con alcune guide di settore.
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