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Luca Dal Col

17/10/2024

Luca Dal Col

Collalbrigo, nel cuore dei vigneti del Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, è definito da molti come un borgo fantasma ma non è così. C’è la parte nuova che è animata e la parte più antica dove resistono la perpetua, il sagrestano e una famiglia, oltre alla storica villa Montalban Ghetti, del XVII secolo, che divenne di proprietà della famiglia Ghetti nel secolo scorso. Soprattutto, da ottobre 2019, ha riaperto l’osteria che qui ha segnato un po’ la storia di Collalbrigo. Un locale che dall’Ottocento fino al 2004 è stato dapprima Sali e tabacchi, poi con una licenza coloniale, infine osteria con campo di bocce e prendeva il nome ‘Dalla Giovanna’, che non era cuoca ma un’abile ostessa (il cuoco era suo marito).

Dopo quindici anni dalla chiusura che ha reso il borgo di Collalbrigo quasi fantasma è arrivato Luca Dal Col, originario di Parè, una località di Conegliano al pari di Collalbrigo, direttamente dal Qatar per riaprire la storica osteria.

Noi ci siamo andati senza conoscerla, semplicemente per ripararci dalla calura estiva dei quasi 40 gradi che c’erano in quel momento. Appena entrati siamo rimasti colpiti dalla disponibilità di questo oste che ci ha accolto senza neppure chiederci se e cosa volessimo mangiare. Due battute e abbiamo capito che Luca e il luogo erano speciali.

Lasciamo a lui il racconto.

Luca Dal Col

Luca cominciamo dalla tua formazione professionale: come sei diventato prima cuoco e ora oste? 

“Come tanti ragazzi alla fine delle medie non sapevo affatto cosa avrei fatto da grande e mi sono iscritto, più per non pensarci troppo, all’Istituto Alberghiero di Vittorio Veneto. Avevo il nonno con la passione della cucina ed è stato questo il motivo che mi ha ispirato. A 13 anni, nel 1998, lavoravo già, nelle pause scolastiche, in cucina al Salisà di Conegliano. Al termine degli studi, nel 2004, una mia amica di scuola che aveva il padre produttore di Prosecco mi disse che un loro cliente ristoratore di Parigi cercava un ragazzo di cucina. Non avevo nulla da perdere ad accettare, pensavo che un anno per imparare una nuova lingua e farmi una prima esperienza poteva starci. Di anni ne ho passati nove, in diversi ristoranti tra cui l’Atelier Robuchon. A un certo punto, nell’ultimo ristorante dove lavoravo c’era come cliente il padre dell’emiro del Qatar. A me piaceva molto andare in sala e quindi lo vedevo spesso, finché una sera mi raccontò di un’opportunità di lavoro nel suo paese. Successivamente venne in cucina uno dei suoi bodyguard per consegnarmi un contratto e un biglietto aereo. Mi ritrovai così a lavorare per la Cigale Hotels, una catena che si stava espandendo in Medio Oriente e Africa come executive chef. Era il 2013!”

 

E come sei arrivato a Collalbrigo dal Qatar?

“Nel 2017 tornai a casa per partecipare al matrimonio di un amico proprio qui a Collalbrigo. Durante l’aperitivo ci mettemmo a parlare della stoica osteria chiusa ormai da 13 anni. Lui mi disse che c’era un progetto di recupero in atto da parte della famiglia Ghetti e che cercavano qualcuno per la gestione. Sarebbe bello se tu prendessi in considerazione la cosa, affermò. Non so come ma poco distante da noi c’era una donna che decise di intervenire nella conversazione: era Gaia Ghetti. Il giorno dopo mi ritrovai a visionare il progetto in casa Ghetti; un progetto di restauro architettonico a cui mancava tutta la parte tecnica di una cucina professionale. Fu in quel momento che mi innamorai del progetto”.

Dopo due anni, nell’ottobre 2019, il progetto diventò realtà…

“Esatto! Diventò realtà nel periodo più allucinante della mia, e di tanti altri, esistenza: di lì a poco la pandemia avrebbe bloccato tutto. Avevo speso tutti i miei risparmi per questa avventura e non riuscivo nemmeno a pensare cosa ci avrebbe riservato il futuro. Poi ho reagito ed è stata, da un lato, la mia salvezza, dall’altro, un ottimo strumento di promozione per quando fosse finito quel bruttissimo periodo. Mi misi a produrre un box con dentro dei cicchetti, una mini-pasticceria e una buona bottiglia di vino, consegnandolo casa per casa. Molti clienti di oggi sono frutto di quell’impegno”.

 

All’osteria non lavori più in cucina e svolgi egregiamente il ruolo dell’oste: come mai questa scelta e come intendi oggi il concetto di accoglienza e ospitalità?
“Per tutta la mia vita professionale ho avuto la fortuna di lavorare in cucine a vista. Questo fattore è determinante per imparare a conoscere i bisogni degli ospiti. Ero arrivato al punto di fare una cucina su misura delle loro esigenze, in base a chi avevo davanti. Questa è stata la mia vera scuola, oggi posso dire che di cucina ne so, che grazie a questo riesco a consigliare gli ospiti che, nella stragrande maggioranza dei casi, accolgono favorevolmente i miei consigli. Mi sento caratterialmente una ‘bestia’ da sala”.

Luca Dal Col

Cosa intendi per ‘bestia’ da sala?

“Essere carismatico, sapere cosa desidera davvero quell’ospite che hai davanti: se una battuta o un consiglio oppure essere lasciato in pace. Sapere cosa vendi, conoscerne tutte le sfaccettature, da un piatto a un vino, vuol dire convincere per dieci volte di più. Qui all’osteria gli ospiti vogliono me e sapere che posso esserci, perché riesco a contare su una squadra di cucina fantastica, rende ancora più stimolante questo massacrante lavoro”.

 

Fammi capire il concetto di accoglienza della tua osteria…

“Facciamo un’accoglienza né troppo formale ma neppure totalmente informale. Cerchiamo il giusto compromesso. Di certo vogliamo essere molto professionali, cercando di soddisfare un pubblico fortemente eterogeneo per età, dai 18 agli 80 anni. In questo ci aiuta avere uno staff giovane e dinamico, in grado di gestire i nostri due concept – la cicchetteria, che in estate trova posto nella grande terrazza e in inverno occupa il piano terra del ristorante che, nei mesi invernali, occupa tutto il primo piano 

 – con una dose massiccia di passione per quello che fanno”.

Luca Dal Col

Come hai creato lo staff dell’osteria?

“Oggi, nel giorno di questa intervista, l’osteria compie esattamente cinque anni e di persone, all’inizio, ne sono passate tante fino a che il Covid ha cambiato le regole del gioco. Oggi contano tre aspetti fondamentali che io rispetto rigorosamente: pagare il giusto il ruolo che svolgono; lasciare tempo libero necessario per avere una vita normale; cercare di essere un buon leader. Quest’ultima è la parte più difficile ma a mio favore gioca l’esperienza all’estero. Quando hai a che fare con venti nazionalità che lavorano nello stesso spazio ristretto di una cucina significa dover imparare a convivere con venti culture diverse, quella che per un francese può essere una battuta per un polacco diventa un’offesa (giusto per fare un esempio) e quindi tutto questo mi ha aiutato ad affrontare e risolvere le situazioni più disparate e, nel caso dell’osteria, a trovare le persone giuste verso cui riporre una grande fiducia. Se io non ci fossi l’osteria avrebbe lo stesso standard e sarebbe gestita con l’identica passione”.

 

Riesci a dare un nome, una definizione, alla tua cucina?

“Credo che il termine più adatto sia non convenzionale. Perché qui non c’era una formula come quella che abbiamo adottato: una parte dei locali destinati alla cicchetteria, l’altra parte al ristorante. E anche nel menu facciamo scelte originali”.

Luca Dal Col

Come è stato tornare in un minuscolo borgo dopo tante esperienze all’estero in metropoli di milioni di abitanti e turisti?

“Ci sono fasi diverse nella vita di ognuno di noi. Avevo voglia di scoprire il mondo a vent’anni e in parte ho soddisfatto questo bisogno. Oggi sono sposato, ho due figlie piccole e tornare in Italia con i ritmi di una famiglia è un bene! Non mi muoverei mai più da qui. Non hanno prezzo le cose necessarie tutte vicino, nell’arco di pochi chilometri, senza code in auto, senza traffico, senza smog”.

 

Parliamo di tua moglie: so che è giapponese…

“Si chiama Kana. Ci siamo conosciuti a Parigi, in un caffè. Lei era venuta per fare un corso di pasticceria al Cordon Bleu a cui hanno fatto seguito esperienze in ristoranti stellati. Ci siamo frequentati e piaciuti, sposati e partiti per il Qatar. Qui è la chef pasticcera dell’osteria, prepara le basi a casa – dove ho creato un piccolo laboratorio - perché abbiamo due figlie piccole, Sakura di sette anni e Mia di due, e conclude la mini-pasticceria al ristorante. Facciamo solo mini porzioni che presentiamo con il caffè. Quando ho letto l’articolo sul café gourmand sul numero scorso di sala&cucina mi ci sono riconosciuto. Questo sistema porta gli ospiti a consumare apparentemente di più, in realtà è un’ottima scusa per perdonarsi la coccola del dolce”.

 

La tua clientela è locale? Come ti ha accolto la comunità?

“La clientela è mista, locale e turistica. Non dimentichiamo che l’osteria è in mezzo ai vigneti patrimonio UNESCO. Questo riconoscimento ha portato molti turisti in queste zone. Prima era un territorio che si attraversava per raggiungere le Dolomiti, ora ci si ferma per andare nelle cantine, ammirare il paesaggio e scoprire storia e arte. Poi ci sono gli ospiti locali che, all’inizio, erano sull’attenti per vedere cosa ne facevo dell’osteria storica, ora sono i più fedeli, anche in cicchetteria dove giovani e anziani si confondono tra di loro. Ho creato un ambiente confortevole, almeno credo dai risultati”.

 

Come ti vedi tra cinque anni?

“Spero di vedermi ancora qui, con i miei ragazzi, a far crescere questa bella esperienza. È forse l’unica ambizione che ho: migliorare, sempre!”

a cura di

Luigi Franchi

La passione per la ristorazione è avvenuta facendo il fotografo nei primi anni ’90. Lì conobbe ed ebbe la stima di Gino Veronelli, Franco Colombani e Antonio Santini. Quella stima lo ha accompagnato nel percorso per diventare giornalista e direttore di sala&cucina, magazine di accoglienza e ristorazione.
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