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L’ultimo ballo del Gattopardo

13/05/2025

L’ultimo ballo del Gattopardo

Un romanzo con una genesi così rocambolesca, non poteva che essere un capolavoro. Al suo interno c’era già tutto il necessario per esserlo: vita e morte, una lotta (persa) tra sensualità e aristocratico pudore, atmosfere affascinanti, personaggi seducenti senza dimenticare politica, etica ed estetica. È la vita a tavola a essere metafora di tutto ciò, fino all’ultimo atto di Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata, l’immaginifico protagonista del romanzo Il Gattopardo dell’aristocratico siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896 –1957).

L’ultimo ballo del Gattopardo
L’ultimo ballo del Gattopardo

È da non crederci. La leggenda narra che il manoscritto fosse stato consegnato da un lontano parente di Tomasi di Lampedusa in Mondadori. Qui venne rigettato da Vittorini. Rifiutato anche da Einaudi arrivò nelle mani della figlia di Benedetto Croce per poi passare a Bassani che lo pubblicò da Feltrinelli nel 1958 con la sua prefazione, diventando un best-seller. Naturalmente postumo, come capita spesso ai più grandi.  

Lo splendido film di Luchino Visconti del 1963 ha definitivamente sovrapposto il volto e il contegno di Burt Lancaster a quelli di quel personaggio straordinario che fu il principe di Salina. E non solo.

Una vita da Gattopardo

Il romanzo è ambientato nella Palermo del 1860, appena dopo lo sbarco di Garibaldi. Il talento emotivo-psico-descrittivo dell’autore fa rivivere, con nostalgia e struggimento, gli amati luoghi della sua nobile famiglia e la vita del suo bisnonno, il principe Giulio Fabrizio di Lampedusa, ispiratore del protagonista, il Gattopardo, dal felino rampante dello proprio stemma nobiliare.

Nel testo, è suggestivo l’intreccio dei piani del racconto: la fine dei Borboni con l’arrivo di Garibaldi e dei Savoia, la vita dell’aristocrazia siciliana e delle sue cucine negli splendidi palazzi e nelle dorate sale da pranzo, la vita nei propri feudi dove l’aristocratica famiglia Salina si siede alla stessa tavola con i propri fittavoli, i nuovi parvenu. Ma vi è poi l’amore tra la seduttiva Angelica Sedara, dotata di grande bellezza e di una dote consistente, figlia di un arricchito mezzadro di Don Fabrizio, e il passionale Tancredi, l’amato nobile nipote del Principe, di grande fascino ma senza eredità. Tra i due si trova Concetta, depositaria di un nobile codice etico-comportamentale e linguistico da rispettare, la figlia preferita di don Fabrizio, innamorata di Tancredi, ma sacrificata, proprio dal padre, a favore di Angelica.  Non certo per bieco calcolo, naturalmente, ma per andare incontro al nuovo che avanza, accettandolo, senza scomporsi come il suo lignaggio impone, dove la spregiudicatezza e il denaro dei nuovi Sedara sostituirà la nobile classe feudataria e borbonica dei Gattopardi. 

Tra le splendide pagine del romanzo, l’elegante servizio a tavola e la descrizione del cibo, con i suoi profumi, forme e colori, diventano un elemento centrale del racconto attorno al quale  si apparecchia la storia d’Italia, della Sicilia e della famiglia Salina.

Su tutto e tutti c’è lui, il principe di Salina con la sua statura morale e intellettuale superiore agli altri e i suoi occhi penetranti che osservano, con disincanto, il proprio mondo in agonia. Come premonizione alla sua fine, in una delle scene a tavola, “uno dei suoi bicchieri era rimasto a metà pieno di marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo più a lungo sugli occhi azzurri di Concetta “alla salute del nostro caro Tancredi” disse. Bevve il vino di un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più.” 

L’ultimo ballo del Gattopardo

Menu e monzù 

Tra il Settecento e l’Ottocento la cucina francese regnava in tutta Europa. Con l’arrivo della regina Maria Carolina d'Austria (1752 –1814), nata arciduchessa d'Austria (e sorella di Marie Antonietta), moglie di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie, si diffusero ancor più le mode francesi, a tavola e in cucina. Ne sono l’esempio il menu dalla rigida impostazione d’oltralpe e la gran moda della presenza di cuochi francesi a servizio delle nobili casate meridionali, detti monsù o monzù, dall’abbreviazione dialettale di “monsieur”.

La struttura del menu alla francese prevedeva il primo servizio dei potage (ricche minestre) di hors-d’oeuvre (una sorta di ricchi antipasti) ma anche di relevé (portate di carne) ed entrée. Dopo un punch o poncio alla romana, servito per preparare lo stomaco, veniva portato a tavola il secondo servizio, il più importante del pasto, costituito da rotis (arrosti), legumi e contorni. Per il terzo erano serviti, infine, i dessert quindi gli entremets (intermezzi dolci), la pasticceria, i dolci e la frutta. I vini erano principalmente francesi.

Un ordine prestabilito e sovvertito solo in rare occasioni, come durante la prima cena dei principi di Salina all’arrivo nella casa estiva del feudo di Donnafugata, alla presenza di Angelica e del padre in un inadeguato frac: con approvazione dei presenti viene, infatti, servito un timballo come prima portata, profumato di zucchero e cannella, dalla dorata pasta con all’interno “fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.” Ma il principe era uomo di mondo e sapeva come dovevano andare le questioni della vita, anche in cucina: “il principe, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola, che la demi-glace [la salsa n.d.r. ] era troppo carica, e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla, e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito perché un’aura sensuale era penetrata nella casa.”

Citato da Angelica, il cuoco di casa Salina era monzù Gaston. Un ruolo importante quello dei monzù, i cuochi delle nobili casate, i quali godevano di grande fama e responsabilità: nelle loro mani c’era la gestione della cucina, dei menu, della tavola e della buona riuscita dei tanti banchetti mondani dell’aristocrazia siciliana che definivano il successo o meno, in società, di tutto un casato.

Il ballo a Palazzo Ponteleone

Due anni dopo gli avvenimenti dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, la mondanità palermitana si riunisce per uno sfavillante ballo nelle sale dorate del palazzo della famiglia Ponteleone: qui Don Fabrizio si aggira tra “specchi appannati” e vecchie suppellettili simili a “catacombe”. La sua fine e quella del suo mondo è sempre più vicina. Non gli piace la casa, che considera dal gusto passato di moda, e neppure le donne presenti, alcune, un tempo, sue giovani e belle amanti, oggi “sciattone”. Dopo il celebre ballo con Angelica, l’unica soluzione è dirigersi verso il buffet e in quel campo di battaglia vi è l’unica momentanea resa del Gattopardo, omaggiando la padrona di casa: “Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stomaci del mio per tutto questo.”

Preferisce i dolci alla lunghissima e stretta tavola allestita con “piramidi dei “dolci di riposto” [piccoli dolci di pasta reale a varie forme n.d.r. ] mai consumati”, “aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello [letteralmente caldo-freddo, un tipo di preparazione che viene cucinata a caldo e servita fredda n.d.r. ], di tinta acciaio le spigole immense nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, i pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccacce disossate reclini su tumuli di crostini ambrati, decorati delle loro stesse viscere triturate, le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli, colorate delizie.” 

Il principe, infatti, “si diresse a sinistra verso la tavola dei dolci. Lì immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco nevosi di panna; beignets Dauphine [specialità culinaria francese, bignè a base di pasta choux e patate, fritte in olio n.d.r. ] che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits [dolci al cucchiaio francesi n.d.r. ] rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e ‘trionfi della Gola’ col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche ‘paste delle Vergini’.”

Sotto la calotta verde pistacchio dei “trionfi di Gola” tra gli strati di pan di Spagna, farciti da biancomangiare profumato alla cannella, crema di ricotta con canditi, scaglie di cioccolato e pistacchi tritati, la nuova società si accalca. 

Ma i Gattopardi non moriranno mai.

a cura di

Alessia Cipolla

Architetto, food designer e storica della tavola, ha fondato nel 2009 La Costruzione del Gusto, un gruppo multidisciplinare che realizza architetture e design per il mondo del gusto e con gusto. Cura e organizza “Note di pranzi - I menu nella storia”, una mostra itinerante che espone una tra le più importanti collezioni private italiane di menu storici.

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