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Maria Pia Castelli

14/04/2025

Maria Pia Castelli

Il primo Stella Flora non si scorda mai.
Rievocando quell’assaggio, ormai di qualche anno fa, si è mossa un’associazione che non avevo ancora colto: lo Stella Flora, straordinario uvaggio di uve bianche di Maria Pia Castelli, indossa il colore delle Marche. Immaginatevi di sovrapporre il calice, intriso di un dorato intenso, alle delicate colline marchigiane quando, nel pieno della stagione estiva, si presentano bionde e ordinate. Avrete una percezione di continuità, prolungamento, affettività profonda. Segno, ci viene da pensare con un filo di romanticismo, che quando si vinifica con una certa attenzione, un vino è davvero figlio del suo territorio.

Come si cambia

Ripercorriamo la storia, scritta ma anche da scrivere, di quest’azienda non lontana dal suo trentesimo compleanno, attraverso le parole di Alessandro Bartoletti, figlio di Maria Pia Castelli. Alessandro oggi conduce l’attività su binari lucidissimi, come avremo modo di raccontare. Ma partiamo dalle origini, come ci suggerisce lui stesso, visto l’intimo rispetto che nutre per ciò che è stato.
“Il padre di mia madre, nonno Erasmo, piantò i vigneti qui, a Monte Urano, all’inizio degli anni ’90. Le uve che raccoglieva erano destinate a consorzi o aziende, non le vinificava. Un po’ di anni dopo mamma e papà, in ritorno da un viaggio in camper in Francia, in cui raggiunsero la Borgogna, iniziarono a domandarsi se non fosse una buona idea iniziare a produrre del vino ispirandosi alle maison francesi. Il nonno oppose un’iniziale resistenza, gli sembrava una follia. Dopo aver assaggiato i primi esperimenti di Montepulciano, affinato in barrique, dovette ricredersi! Nacque l’azienda. I primi vini messi in bottiglia furono Erasmo Castelli, dedicato al nonno, e proprio lo Stella Flora, diventato simbolo dell’azienda. L’anno successivo, quindi nel 2003, imbottigliammo anche altre due produzioni, il Lorano e Sant’Isidoro. Uscimmo due anni più tardi con le prime annate… ma il mercato subì un duro colpo nel 2008, come sanno tutti”.
All’epoca Alessandro era giovanissimo ma ricorda l’aria tesa e pessimista che si respirava nel mondo del commercio e del vino, ma pure una particolarità, tutta marchigiana.
“C’erano meno vini, naturalmente, ma le Marche godevano di una certa emancipazione. Si era formata una ristretta cerchia di produttori, i cosiddetti Piceni Invisibili, accumunati dal desiderio di valorizzare il territorio. C’era un sentimento condiviso molto più forte di oggi a cui dovremmo ispirarci”.
Alessandro è entrato in azienda nel 2009.
“Per sette anni mi sono dedicato esclusivamente a vigna e cantina. C’era bisogno di ripartire e focalizzarsi sul cuore dell’attività era cruciale. Come lo era assaggiare tante etichette, confrontarsi, fare visita ad altri produttori, leggere tantissimo. Non si arriva a comprendere se non si ha sete”.

Maria Pia CastelliMaria Pia Castelli

Quanto conta l’uomo
In questa rubrica abbiamo ospitato scuole di pensiero diverse, a volte nettamente diverse. E ci pare sempre più evidente l’eterogeneità che si nasconde dietro all’espressione “fare vino”. È una somma di esperienze, stratificazioni, deviazioni, idee, intuizioni che ciascun produttore mette a fuoco e in pratica. Non c’è una verità univoca, c’è un modo che ciascuno disegna per sé. Anche in questo caso è un piacere appuntare un approccio sensibile, misurato, rispettoso.
“Siamo convinti che in campagna tutto vada calcolato. Abbiamo un approccio semplice ma metodico. Il nostro obiettivo è dare al vigneto tutti gli strumenti per esprimersi al meglio, metterlo nelle condizioni di svilupparsi a seconda del clima. Utilizziamo bassissime dosi di rame e zolfo; ci avvaliamo di tanti supporti naturali come estratti di agrumi e propoli, effettuiamo la bruciatura degli stralci da cui otteniamo la cenere da spargere, con l’obiettivo di portare in cantina delle uve sane e ricche. Per noi, oltre a questo, conta la salubrità del vigneto. Dev’essere curato, sempre sfalciato, con pochi speroni, quindi pochissimi grappoli per pianta. Copriamo e defogliamo in funzione del benessere della vite, perché è su questi aspetti che l’uomo conta. In questa fase dell’anno, quando esplode la vegetazione, sembra un giardino. Proprio perché per noi il vigneto è l’origine, inizio da qui a mostrare l’azienda”.

Maria Pia Castelli
Maria Pia Castelli

Il quadro dell’azienda, con una novità importante
Maria Pia Castelli è sviluppata su otto ettari, ripartiti tra Sangiovese, Montepulciano, altre uve a bacca rossa, Trebbiano, Pecorino, Passerina, Malvasia di Candia. Non c’è mai stata volontà espansionistica. Solo di recente la famiglia Castelli ha acquisito una Villa Liberty a Falerone (da cui si presuppone derivi il vino Falerio), dotata di una cantina storica e di un appezzamento su cui hanno innestato un giovane impianto di uve Trebbiano, Verdicchio e Malvasia da cui ricaveranno un Falerio - appunto - in tiratura limitatissima.
“Non vogliamo crescere numericamente, non è mai stato il fine. Ci siamo sempre posti l’obiettivo di arrivare in luoghi in cui sappiamo di essere ben raccontati, in particolare nella ristorazione. Questo nuovo progetto però ci è sembrato di grande significato e non andrà a scombinare la nostra natura. Anzi, sigilla ancora di più il legame con questa terra". 

Maria Pia Castelli

Tra terra e nobiltà
Le Marche tornano spesso nei pensieri di Alessandro, segno che sono una priorità.

“Siamo una delle regioni con il potenziale più elevato in ambito enologico… e non solo. Ma siamo spesso frenati da alcuni retaggi culturali. Sono convito che dovremmo partire dal piccolo per ricucirci e crescere un po’ per volta. Ci manca anche molto l’attitudine ad osservare chi eccelle, ci aiuterebbe a tracciare la via”.
Affrontando l’argomento gli facciamo notare la sua tendenza a rimanere defilato, senza esercitare esibizionismi; profilo che risulta quasi atipico, in un periodo storico in cui spesso il produttore sembra protagonista più del vino. Alessandro continua a parlare della sua regione senza voler spiegare troppo:
“Sembra che si debba essere fighi per vendere. Io credo che ci siamo dimenticati di dare valore a due elementi fondamentali che caratterizzano questo mestiere e, in generale, le professioni intrecciate alla natura: la sensibilità e il tempo. Dobbiamo recuperare il tatto, la capacità di leggere ciò che abbiamo intorno. Questo significa anche rimettere al centro il tempo, la pazienza, il silenzio. L’attesa non è mai slegata da questo lavoro e dedicare tempo ad altro lo sottrae all’attività”.
Da quando abbiamo inaugurato questa rubrica, ormai più di due anni fa, nessuno aveva mai associato la parola nobiltà all’atto di fare il vino. Direte “impossibile”. E invece è così. Lo prendiamo come sintomo di una terminologia che è cambiata negli ultimi anni. Per alcuni nobiltà potrebbe risultare fuori moda; al contrario l’essere alternativi, scompigliati, anarchici connota ed esalta. Alessandro, invece, ci riporta proprio lì, al concetto di compiere un gesto privilegiato.
“Il mondo del vino è nobile. C’è privilegio nel poter vivere la natura, nel condividere con lei uno spazio, un progetto. Ed è altrettanto un privilegio produrre immaginando che quel vino un giorno giungerà su una tavola, qualunque essa sia!”

 

 

Ci accingiamo a un periodo intenso di fiere e manifestazioni in cui il vino è protagonista o felice compagno. E, alla luce di quanto stia cambiando il settore, non potevamo che scivolare in una riflessione. Anche questo capitolo marchigiano - che si aggiunge a una collezione di storie preziose - concorre a farci dire che il vino è di più di quanto ci raccontano le mode, i classicismi, e tanti eno-influencer. Non è un bottiglia da stappare e da esibire come un trofeo. Non è un nome da depennare o un’immagine da incasellare negli highlights di Instagram. È un distillato di cultura, storie, scelte territoriali e spesso familiari, a cui si devono rispetto e cura. E tempo, come suggeriva Alessandro Bartoletti.
“Serve aprire… ma anche capire” mi disse un produttore langarolo qualche mese fa mentre, con estrema cura, ascoltava l’evoluzione di un gruzzolo di bottiglie aperte da settimane e lasciate lì, a muoversi lentamente. Non c’era fretta di bere, c’era urgenza di ascoltare. Se ripartiamo da questa narrazione, dall’idea che il vino debba essere un racconto avvicinabile e comprensibile a tutti, e che merita orecchio, forse possiamo garantirci ancora tanto buon vino sulle tavole di domani. Ce lo auguriamo davvero.

 

 

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