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Orgogli e pregiudizi

13/05/2025

Si fa un gran parlare di made in Italy, tant’è che è stata istituita una giornata per celebrare tutti i talenti nostrani in ogni campo, compreso quello olivicolo e oleario. C’è davvero di che essere orgogliosi, anche perché, effettivamente, l’Italia può vantare una storia unica e speciale. I grandi marchi del settore, ancora operativi nel mondo, sono stati italiani. Lo sono ancora, certo, seppure appartengano ormai a fondi di investimento esteri, o a imprese straniere. Tuttavia, occorre riconoscere che la nascita dell’olio confezionato - dapprima in latte in banda stagnata, poi in bottiglie - è un vanto tutto italiano. Abbiamo creato il commercio internazionale degli oli da olive. E abbiamo creato pure la categoria merceologica (nel novembre 1960) “olio extra vergine di oliva”, in seguito adottata da tutti gli altri Paesi. Possiamo proseguire, con i moti d’orgoglio: c’è da esserne fieri. La stessa comunicazione intorno alle proprietà salutari e sensoriali, le abbiamo ideate e promosse noi. “Olio Sasso medicinale” è stato un trend di successo di fine Ottocento, merito della famiglia Novaro. Si deve ai professori Galli e Visioli, dell’Università di Milano, la grande scoperta della presenza e del ruolo dei cosiddetti “componenti minori”, la parte non grassa dell’olio che costituisce la cifra distintiva di un extra vergine: sono oltre 220 molecole che fanno la qualità nutrizionale (per la grande presenza di sostanze antiossidanti) e sensoriale (perché profumi, sapori e aromi scaturiscono da queste sostanze). Il successo (riconosciuto) degli oli italiani nel mondo, lo si deve tutto a chi ci ha preceduto. Un orgoglio ampiamente meritato. Poi, però, abbiamo smesso di investire. Abbiamo rinunciato a sperimentare nuove vie vivendo degli allori del passato senza più correre rischi imprenditoriali, senza innovare: ci siamo attaccati come cozze sugli scogli della tradizione, ignorando che la tradizione è sempre un concetto in divenire, non un guardare al passato ignorando il futuro. C’è stato un arretramento nostalgico, una idealizzazione di ciò che eravamo senza renderci conto di ciò che più non siamo. Retrocessi al quinto posto come Paese produttore d’olio, abbiamo dato sfogo a invettive e pregiudizi. Si legge di tutto. Due titoli rappresentativi ed emblematici: “Invasi dall’olio straniero” (per forza, abbiamo rinunciato a produrre); “L’industria olearia non lascia nemmeno le briciole all’olio artigianale” (sempre battaglie intestine). Il declino è figlio di errori e sottovalutazioni, di inedia, ignoranza, negligenza, mancanza di motivazioni e di tanti pregiudizi. Il fenomeno dell’abbandono degli oliveti in Italia è drammatico. Non si coltivano e non si piantano più olivi perché non garantiscono una giusta remunerazione: sono antieconomici, ma solo per noi italiani. Gli altri Paesi ne piantano a milioni, i vivai non riescono a star al passo delle richieste. Noi ci opponiamo all’alta densità degli oliveti, la quale invece garantisce reddito sicuro e qualità degli oli. Chiudo con un triste aneddoto. Due biotecnologi agrari italiani, Eddo Rugini e Bruno Ruggiero, hanno sviluppato olivi resistenti alle acque saline. Visti i cambiamenti climatici, è una scoperta sensazionale. Ho dato voce al loro progetto di coltivare gli olivi su piattaforme marine (si bonificherebbero perfino le acque inquinate da nitriti). Un tale ha commentato il mio articolo augurandomi un ictus fulminante, reo di aver introdotto uno spiraglio di novità. Quando si diffondono e si alimentano pregiudizi, l’orgoglio per un passato illustre non regge più il presente e nemmeno ha chance per il futuro. La ristorazione, in tutta questa commedia all’italiana, può fare la sua parte rompendo ogni indugio e sostenendo un tessuto produttivo ormai sfilacciato e sfiduciato.

 

Luigi Caricato

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