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Rajberti e il galateo borghese

28/02/2024

Rajberti e il galateo borghese

È il 1848: in tutta Europa i popoli insorgono. A Milano i mazziniani e il popolo stanco di soprusi sono insieme sulle barricate contro gli odiati austriaci. Vincono ma solo momentaneamente. 

A luglio i piemontesi con a capo Carlo Alberto vengono sconfitti dagli austriaci a Custoza e obbligati a trattare la capitolazione con Radetzky il quale rientrerà trionfalmente a Milano. Solo nel 1859 a seguito della vittoria della Francia sull’Austria, gli austriaci lasceranno Milano.

Mentre tutti sono sulle barricate, tra canti patriottici e morti ammazzati, Giovanni Lodovico Ambrogio Rajberti (1805-1861), medico milanese, poeta dialettale, gourmand e umorista, che appoggiava pienamente il fervore rivoluzionario, scrive, come calato dal cielo, L’arte di convitare spiegata al popolo pubblicato nel 1850. Considerato dall’autore come un “frammento di Galateo”, il testo rappresenta: “l’arte di stare col prossimo il meno male per sé e per gli altri, ossia l’arte di vivere in società”. 

È un libro assolutamente gustoso, ricco di riflessioni colte ma anche di aneddoti divertenti sull’arte di ricevere a casa e di essere invitati nel pieno periodo risorgimentale. 

Come tutti i gastronomi, da Grimod de la Reynière in poi, anche il gourmand nostrano Rajberti è un uomo colto, raffinato e un buon anfitrione che detta legge in fatto di gusto, ma utilizzando la potente arma della satira.

Già di per sé, l’uscita di questo testo in un periodo storico così drammatico, è un fatto che incuriosisce. Anche Rajberti si chiede il perchè, ma si risponde: “In questo mondo si riderà sempre, per quanto gli affari vadano alla peggio: e meno c’è da ridere sulle cose grandi, più si ha bisogno di rivolgersi alle cose piccole”.

Rajberti e il galateo borghese

Vita e opere di un umorista milanese

Rajberti esercitò la professione di medico prima a Milano e poi a Monza senza grande fama. Si sposò due volte ed ebbe sei figli. Per tutta la vita, a causa di qualche libello satirico e patriottico di gioventù venne tenuto d’occhio dalla polizia austriaca, cosa che non giovò alla sua salute e neppure alla sua carriera. Viaggiò poco. Una vita non particolarmente interessante se non fosse per la sua produzione letteraria, alquanto bizzarra: nel 1836 tradusse e reinterpretò in dialetto milanese l’Arte poetica di Orazio e nel 1838 scrisse Le prefazioni delle mie opere future, senza, naturalmente, proseguire con un testo. Nel 1840 uscì lo scritto Il volgo e la medicina, dove descrisse la sua attività di medico e di scienziato, scagliandosi contro l’omeopatia e tutte le credenze del popolo. A tal riguardo ebbe anche uno scontro acceso con Honoré de Balzac. 

Non contento, nel 1845 pubblicò Il gatto. Cenni fisiologici e morali, un ironico trattato dove un felino parlante dispensa saggi consigli a un umano: testo, solo apparentemente, non adatto alla Milano in stato d’assedio sotto gli austriaci.

Anche se si sentiva parte di quel popolo al quale aveva dedicato L’arte di convitare, era di nobile famiglia, apprezzato dalla società intellettuale milanese e assiduo frequentatore del salotto della contessa Maffei, di casa Litta, di casa Manzoni e di Massimo D’Azzeglio. 

Altro testo fu Il viaggio di un ignorante ossia ricetta per gli ipocondriaci del 1857 dove raccontò del proprio viaggio a Parigi per l’Esposizione universale del 1855.

Rajberti e il galateo borghese

L’arte di convitare spiegata al popolo
Rajberti accompagna il lettore passo dopo passo, dagli inviti fino al caffè, dispensando consigli nel mettere tutti a proprio agio, descrivendo la varia umanità che si può trovare come compagni di tavola: il ritardatario, lo scroccone, il superstizioso, l’ignorante e, naturalmente, il maldicente. Nel testo scorrono immagini di interni ottocenteschi con le prime vere sale da pranzo con tavolo centrale e credenze alle pareti, con uomini e donne abbigliati elegantemente e le loro conversazioni conviviali.
Per “popolo”, poi, intende la nuova società borghese che anima le strade di Milano, composta da impiegati, professionisti, commercianti e piccoli proprietari terrieri, la gente “alla buona”: così diversa da quella aristocratica, la nuova borghesia va indirizzata e ben consigliata se non proprio educata, almeno nell’arte di ricevere. 

Rajberti e il galateo borghese

Ecco alcuni consigli del medico letterato per la buona riuscita di un pranzo
Si pranza alle cinque e la puntualità è una forma di rispetto oltre che di educazione. La tavola deve essere ben illuminata ed elegante. Non bisogna esagerare nelle portate: “Principal pecca dei conviti popolari è che non si rispetta la gran massima “ne quid nimis” (mai troppo) […] che ci sia tanta roba che sembrano fatti per saziare gli elefanti e le balene”. Meglio non iniziare con un salume, perché è cibo rustico, salato ma soprattutto, vista la sua bontà, gli invitati vi si ingozzerebbero, rovinandosi l’appetito: “Il pranzo deve cominciare sempre e poi sempre con una minestra”. Prosegue: “Un pranzo di buon gusto, lontano egualmente dalla parsimonia come dalla matta ostentazione, dovrebbe constare a mio debole avviso, di cinque piatti o al più sei: i tre d’obbligo, frittura, lesso, arrosto con qualche altro intermedio […] Volete proprio sfoggiare? Aggiungete un dolce, un gelato, e altre bazzecole di credenza […] Ma poi basta, basta davvero”.
Gli invitati in una “mensa amichevole” dovrebbero avere a loro disposizione lo spazio adeguato e “armonizzarsi tra loro”, evitando discorsi religiosi, politici o licenziosi e i brindisi in rima, almeno di non essere un poeta apprezzato. Se invitati, evitare, per non arrecare disturbo alla padrona di casa, di non voler cambiare piatto e posate per una nuova portata: “Quando vi cambiano il piatto, per carità, lasciate fare e non opponete goffe e grette osservazioni”.
I pranzi non dovrebbero durare troppo a lungo: “La mensa è quel luogo dove non si patisce la noia durante prima ora. […] Probabilmente ci annoieremo nel corso della seconda. Dunque, imploro che evitiate almeno la terza a riguardo delle persone di buon gusto e di buon senso che onoreranno la vostra casa.”
La preferenza di Rajberti va alla tavola del popolo perché: “[…] Dai grandi si mangia meglio, ma tra di noi si mangia più allegramente. […] Oh, viva noi! […] Noi siamo il buon popolo, il caro popolo, e chi di gallina nasce, gli conviene razzolare.”
Ma la vita del bravo anfitrione non è semplice: come si fa a creare degli ottimi convivi? Risponde Rajberti: “provando e riprovando”.

 

Nasce una nuova cucina
Sulla tavola di Rajberti si apparecchiano tutti i vizi e le virtù della comunità ottocentesca, misurando pesi e contrappesi di una società, e di un gusto, in piena trasformazione.
La tavola borghese di metà Ottocento si appropria dell’impostazione del menu classico francese con la prima portata del potage o minestra, ma prosegue con solo sei portate, decisamente minori rispetto ai menu dei banchetti importanti, ma a favore della parsimonia e contro lo spreco, attitudini tipicamente borghesi. D’altronde il numero del personale di servizio non è lo stesso delle case aristocratiche.
Il ruolo centrale della carne resta il perno attorno al quale si costruisce la struttura del pasto, sebbene, nella tavola borghese sia fritta, lessa e arrosto. Le portate sono servite alla russa, uscendo dalla cucina una alla volta, con l’esigenza della presenza del menu, il cartoncino sul quale segnare la successione delle portate. La presentazione dei piatti è più casalinga e meno scenografica rispetto all’alta cucina.
Le portate sono abbinate a vino “da tavola o pasteggiabile” e non a bottiglie rinomate e costose, spesso straniere e francesi, come nei menu eleganti.
Anche il banchetto aristocratico si trasforma, però, sempre più contaminato dalla cucina borghese e dal suo modo più snello di “dar pranzo” segnando, così, l’inizio di una nuova cultura gastronomica, alta e bassa insieme, che getterà le basi della cucina italiana unitaria, dell’Artusi e del XX secolo.


Alessia Cipolla

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