Ecco alcuni consigli del medico letterato per la buona riuscita di un pranzo
Si pranza alle cinque e la puntualità è una forma di rispetto oltre che di educazione. La tavola deve essere ben illuminata ed elegante. Non bisogna esagerare nelle portate: “Principal pecca dei conviti popolari è che non si rispetta la gran massima “ne quid nimis” (mai troppo) […] che ci sia tanta roba che sembrano fatti per saziare gli elefanti e le balene”. Meglio non iniziare con un salume, perché è cibo rustico, salato ma soprattutto, vista la sua bontà, gli invitati vi si ingozzerebbero, rovinandosi l’appetito: “Il pranzo deve cominciare sempre e poi sempre con una minestra”. Prosegue: “Un pranzo di buon gusto, lontano egualmente dalla parsimonia come dalla matta ostentazione, dovrebbe constare a mio debole avviso, di cinque piatti o al più sei: i tre d’obbligo, frittura, lesso, arrosto con qualche altro intermedio […] Volete proprio sfoggiare? Aggiungete un dolce, un gelato, e altre bazzecole di credenza […] Ma poi basta, basta davvero”.
Gli invitati in una “mensa amichevole” dovrebbero avere a loro disposizione lo spazio adeguato e “armonizzarsi tra loro”, evitando discorsi religiosi, politici o licenziosi e i brindisi in rima, almeno di non essere un poeta apprezzato. Se invitati, evitare, per non arrecare disturbo alla padrona di casa, di non voler cambiare piatto e posate per una nuova portata: “Quando vi cambiano il piatto, per carità, lasciate fare e non opponete goffe e grette osservazioni”.
I pranzi non dovrebbero durare troppo a lungo: “La mensa è quel luogo dove non si patisce la noia durante prima ora. […] Probabilmente ci annoieremo nel corso della seconda. Dunque, imploro che evitiate almeno la terza a riguardo delle persone di buon gusto e di buon senso che onoreranno la vostra casa.”
La preferenza di Rajberti va alla tavola del popolo perché: “[…] Dai grandi si mangia meglio, ma tra di noi si mangia più allegramente. […] Oh, viva noi! […] Noi siamo il buon popolo, il caro popolo, e chi di gallina nasce, gli conviene razzolare.”
Ma la vita del bravo anfitrione non è semplice: come si fa a creare degli ottimi convivi? Risponde Rajberti: “provando e riprovando”.
Nasce una nuova cucina
Sulla tavola di Rajberti si apparecchiano tutti i vizi e le virtù della comunità ottocentesca, misurando pesi e contrappesi di una società, e di un gusto, in piena trasformazione.
La tavola borghese di metà Ottocento si appropria dell’impostazione del menu classico francese con la prima portata del potage o minestra, ma prosegue con solo sei portate, decisamente minori rispetto ai menu dei banchetti importanti, ma a favore della parsimonia e contro lo spreco, attitudini tipicamente borghesi. D’altronde il numero del personale di servizio non è lo stesso delle case aristocratiche.
Il ruolo centrale della carne resta il perno attorno al quale si costruisce la struttura del pasto, sebbene, nella tavola borghese sia fritta, lessa e arrosto. Le portate sono servite alla russa, uscendo dalla cucina una alla volta, con l’esigenza della presenza del menu, il cartoncino sul quale segnare la successione delle portate. La presentazione dei piatti è più casalinga e meno scenografica rispetto all’alta cucina.
Le portate sono abbinate a vino “da tavola o pasteggiabile” e non a bottiglie rinomate e costose, spesso straniere e francesi, come nei menu eleganti.
Anche il banchetto aristocratico si trasforma, però, sempre più contaminato dalla cucina borghese e dal suo modo più snello di “dar pranzo” segnando, così, l’inizio di una nuova cultura gastronomica, alta e bassa insieme, che getterà le basi della cucina italiana unitaria, dell’Artusi e del XX secolo.
Alessia Cipolla