Amaro come
I composti responsabili di ciò che definiamo amaro sono numerosi e appartengono a famiglie chimiche differenti: alcaloidi, come la caffeina, teina o chinina, rappresentano alcuni degli esempi più noti. Un’altra grande categoria è quella dei polifenoli, particolare rilevanza hanno anche i glucosidi amari, tipici della cicoria e di altre erbe spontanee, ma anche peptidi derivanti da idrolisi proteica, presenti ad esempio in alcuni formaggi stagionati. La cucina dello Stivale ha saputo valorizzare l’amaro trasformandolo in un tratto identitario di molte tradizioni regionali: la cicoria catalogna trova impiego in piatti come la puntarella romana, dove l’amaro viene mitigato dalla salinità e sapidità della salsa di alici. Nel Meridione le erbe selvatiche amarognole caratterizzano le minestre bilanciando la grassezza di legumi e maiale. Misticanze, radicchi in insalata, cicorie ripassate, hanno sempre avuto un ruolo da protagonista nelle cucine domestiche.
Cenni di meccanismo percettivo
La percezione del sapore amaro è un tratto fenotipico che mostra una notevole variabilità nelle popolazioni umane. La risposta sensoriale agli amari è mediata di specifici recettori (TAS2R) espressi da 25 geni, ma le conoscenze circa la relazione tra fattori genetici e sensibilità gustativa è perlopiù limitata a due di questi. Insomma, sebbene la nostra relazione con l’amaro sia tra i temi più sviscerati in letteratura scientifica, mancano ancora tasselli per completare il puzzle. Sappiamo però -l’ho ribadito nel corso di questa rubrica- che la genetica ha un impatto significativo sulla percezione, perché si riflette sulla fisiologia degli apparati. Avere un numero più o meno elevato di recettori del gusto ci rende più o meno sensibili ai sapori, non solo all’amaro. Di certo con alcuni amari la relazione diventa per alcuni soggetti particolarmente sfidante, proprio per questioni genetiche. Era il 1994 quando Linda Bartoshuk, allora in forze alla Yale University, pubblicò uno studio fondamentale sull’influenza della genetica sul senso del gusto. Il lavoro della ricercatrice si basava sulla valutazione della capacità dei soggetti coinvolti nello studio di percepire l’amaro di due composti: la feniltiocarbammide (PTC, un composto organico prodotto da molte piante che funge da repellente per gli erbivori) e il 6-n-propiltiouracile (detto PROP, simile ma meno tossico), già da tempo utilizzati in questo tipo di ricerche. Il lavoro della Bartoshuk evidenziò una diversa sensibilità a questi composti- da nulla ad estremamente forte- proprio per ragioni genetiche.
Questa condizione è dovuta ad una variazione del gene TAS2R38, che secondo quanto evidenziato in Italian Taste, il progetto di ricerca orchestrato dalla Società Italiana di Scienze Sensoriali per indagare tendenze e abitudini alimentari dello Stivale, riguarderebbe più le femmine dei maschi. Nel campione preso in esame per lo studio infatti, il 34,6% delle femmine è risultato supertaster (ipersensibile all’amaro del PROP), mentre solo il 21,1% dei maschi ha questo tipo di ipersensibilità. La risposta sensoriale che sperimentano i cosiddetti supertaster non va ricercata solo nell’intensità dello stimolo, semmai nella natura dell’amaro. Un po' come se quel composto scatenasse nell’assaggiatore una risposta atavica avversa da incasellare alla voce veleno. Non ci si può educare granché in questo caso, proprio perché alla base ci sono codici genetici. Ma quei codici sono circoscritti, in altre parole espongono alcuni di noi ad esperienze sfidanti con alcuni amari ma non ci impediscono di apprezzarne altri. Del resto le amarezze sono parte di un retaggio culturale che ha radici profonde.