Foto di Alberto Blasetti
In una piccola saletta di un ristorante due pareti su quattro sono occupate da una libreria affollata di volumi. Non sono romanzi, saggi, tantomeno enciclopedie; si tratta di un sostanzioso archivio di riviste e guide gastronomiche. Sono ordinate in ordine temporale, divise per tipologia, con le prime uscite di Gault&Millau, Michelin, Arcigola, Gambero Rosso, L’Espresso a segnare gli scaffali più alti.
Inizio a sfogliare le prime, quando si avvicina un signore con aria navigata.
“Non c’è più la critica e la scrittura di un tempo. Leggi qualche pagina e vedrai che roba”.
Mi raccolgo e, dopo qualche istante di meditazione, consapevole che mi reputi un’assoluta neofita, controbatto: “Sarebbe curioso, per non dire altisonante, che si parlasse così di cucina e ristorazione a distanza di trent’anni!”.
Il signore mi osserva. Iniziamo a discutere sull’utilità della comunicazione specializzata, sul dualismo critica-giornalismo. Solo a distanza di qualche minuto inizia a capire le ragioni della mia risposta.
“Questi testi sono di grande piacevolezza e finezza ma non possiamo pensare che siano cambiate le tecniche di cucina, gli ingredienti, le tecnologie e non sia cambiato il linguaggio per comunicare questo settore” aggiungo a un certo punto.
“Se la guardo dalla mia esperienza e memoria vedo tanta superficialità oggi” - continua lui. “Che ne dici di tutte queste persone che si ergono a giudici e critici? Chi mi dice che i clienti siano in grado di discernere chi è capace, e competente, e chi no? Tanti linguaggi sembrano omologati e banali. E poi l’abbondanza di immagini, danno alla testa tutti questi scatti di piatti”.
La conversazione prende una piega stimolante.
“Concordo con lei" - lo fermo. “Il punto non è se è cambiato, perché è ragionevole che sia così, ma è capire quali sono gli attori e le voci autorevoli che possano dire qualcosa di utile, e interessante, per questo settore. E poi la questione della misura”.