A Codogno, al Birrificio Brewfist e alla birreria Terminal 1, Andrea Maiocchi e Pietro di Pilato sfatano i luoghi comuni sulla birra artigianale. E noi invitiamo i ristoratori a fare altrettanto.
Oggi vogliamo provare a sfatare due luoghi comuni, due posizioni di cui ci si autoconvince in maniera più o meno consapevole, e che incontrerete nel corso della lettura. Ma partiamo da zero, anzi da due:
Andrea Maiocchi e Pietro di Pilato, proprietari del
birrificio artigianale Brewfist di Codogno (Lodi), il primo si occupa del commerciale e del marketing, il secondo dell’estero, entrambi di fare una birra buona come piace a loro (e a noi).
Andrea e Pietro si conoscono una manciata di anni orsono al Birrificio Lodigiano: entrambi hanno in tasca un diploma che ne certifica la preparazione in tecnologie alimentari, entrambi amano il mondo birraio ed entrambi, poco alla volta, sentono nascere il desiderio di creare attorno a questo mondo un nuovo progetto, un sistema efficiente che cambi le regole e, appunto, i luoghi comuni. Poco più di sessant’anni in due, Andrea e Pietro dedicano il 2009 a mettere su carta il loro progetto, studiano, imparano, si chiariscono le idee, anche economiche, e nel 2010 aprono la loro società, trovando dopo sei mesi i primi finanziatori, sostenuti dai rispettivi parenti.
“Avevamo un obiettivo:
produrre un milione di litri all’anno. La prima cotta ha raggiunto i 5 mila e 500 ettolitri, superando di poco la metà. Siamo sulla strada giusta” ci racconta
Andrea Maiocchi. Obiettivo quantitativo ma anche qualitativo altrettanto preciso: “L’intenzione era ed è quella di
cambiare modo di fare birra, portando la birra artigianale su una fascia di età giovane, tra i 25 e i 35 anni. – continua - Non ci interessa la bella bottiglia, che attira un pubblico di nicchia e alza i costi finali, ma raggiungere l’utenza in larga scala. Per questo abbiamo studiato un nome e un logo giovani, realizzato per noi da
Alessandro Quartieri, facile da ricordare ma che riporta la dicitura
italiana ale, per far riconoscere all’estero che siamo italiani”.
Già, estero: i due ragazzi non ci hanno messo molto a farsi conoscere, complice la significativa esperienza londinese di Pietro e un’inclinazione naturale ma efficiente alla comunicazione strategica: i mercati vertono su
Scandinavia, Inghilterra, Australia e Stati Uniti, “luoghi in cui ha senso un prodotto più caro. La Germania ad esempio ha un approccio diverso, lì la birra è da vecchi, i giovani puntano sui cocktail…”.
Il birrificio produce un 80% con il proprio marchio e un 20% per conto terzi:
il 70% del totale della produzione è in fusto, mentre la rimanenza è imbottigliata solo in formato da 33 cl.
Ecco sfatato il primo luogo comune: birra artigianale non solo in bottiglia, ma in fusto, quindi reperibile a costi più bassi e su larga scala. I ragazzi l’hanno pensata bene, perché la formula piace e funziona.
Scelta questa, inoltre, che riflette il target di riferimento, deciso a monte: il pub, la birreria, il locale after dinner.
E il ristorante, mito inseguito da molti colleghi che fanno birra artigianale? “Non è il nostro scopo principale. Se arriverà benissimo, ma vogliamo in primo luogo fare cultura dal basso, consentendo ai giovani che escono la sera di conoscere dei prodotti artigianali a costi equi e sostenibili: per questo il fusto. Il ristorante chiede packaging diversi, una bella bottiglia da portare in tavola al posto del vino: i costi si alzano, il consumatore finale cambia”.
E qui il secondo luogo comune vorremmo sfatarlo noi, lanciando un appello ai ristoratori nostri lettori: quanto c’è di vero? Quanto si potrebbe far passare il messaggio della qualità e dell’artigianalità via fusto e non solo via vetro se solo il personale fosse formato a tale qualità, per trasferirla sulla tavola? Stonerebbe una pinta sulla tavola in accompagnamento a una battuta di fassona piemontese? Il dibattito è aperto.
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Intanto, le birre del Brewfist sono tutte degustabili al
Terminal 1, la birreria aperta da Andrea e Pietro sempre a Codogno e da pochissimo affidata ai
direttori di sala Alessandro Quartieri (sì, il designer che ha inventato il logo!) e Valeria Stefanoni, due che ne sanno, forti della pluriennale esperienza maturata in questo settore, quindi due certezze.
Le referenze sono 14 e coprono gamme di stili diversi. I nomi? “Questa è la parte più pazza, a cui penso io” ride Andrea. E allora si va di
24K, Jale, Burocracy, Fear, Spaceman (la nostra preferita, che da sola copre il 40% della produzione), Caterpillar, X-Ray, 2Late, Czech Norris, Heimdall, Terminal1m Green Petrol e Chemel Light (scopritele nei dettagli qui).
Il locale ricorda i terminal degli aeroporti, e infatti l’ispirazione ad Andrea è venuta proprio osservandone i tabelloni: al Terminal 1 si può venire per una veloce pausa pranzo, per cena o anche per uno spuntino, le materie prime sono ottime, il servizio premuroso e la birra, beh, una garanzia.
Impossibile non chiedere quali
progetti abbia in serbo il futuro: “Sicuramente guardare ancora di più all’export, studiare modi nuovi per investire sui nostri prodotti, e sviluppare un
franchising, che può essere di tre livelli, da un primo contest in cui l’esercente decide su tutto fino alla nostra presenza costante. Adesso in tutto tra birrificio e birreria siamo in 17: la nostra forza oltre che nel prodotto buono sta nel fatto che
il sistema funziona perché ogni collaboratore ha un ruolo preciso che riconosce e fa proprio”.
Complimenti, di questi tempi avere un team così è una sfida non da dopo. E il Brewfist e il Terminal 1 hanno tutte le carte in regola per vincerla.
Alessandra Locatelli