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Che si sia cuochi o chef l'importante sono i fatti

17/11/2011

Che si sia cuochi o chef l
«La cultura dei fatti»: questo l’high concept che l’altro ieri ha fatto da cornice al Summit Ho.Re.Ca. svoltosi a Milano presso la sede de Il Sole 24 Ore. A concludere la giornata, la tavola rotonda coordinata da Davide Paolini sul tema, aperto e mai così attuale, “Basta con gli chef! Torniamo ai cuochi?” esclamazione ed interrogativo proposti dal Gastronauta agli ospiti chiamati a discutere sul cambiamento dell’immagine di questa figura professionale. Ma si tratta di evoluzione o piuttosto di involuzione?
Protagonisti a ragion veduta del dibattito Gualtiero Marchesi, Moreno Cedroni, Vittorio Fusari, Enrico Bartolini e i giornalisti Roberto Perrone e Alberto Lupini. Tutti concordi nell’affermare che la figura dello chef andata costruendosi in questi ultimi anni, complici in prima linea i media, rappresenta un modello lontano dalla realtà, fatta di cucinieri, di osti, di «chimici dell’intuizione», secondo la definizione che ne diede Ernesto Illy, di professionisti della ristorazione italiana, conoscitori e promotori della cultura della materia, ma dalla propria cucina.
Non dimentichiamo che la parola chef da sola non significa nulla, e l’utilizzo spesso abusato che se ne fa è rappresentativo dell’influenza francese con cui facciamo ancora i conti, che se da un lato è fisiologica, dall’altro può spingere all’estrema riverenza, se non alla sudditanza.
A vent’anni dall’affermazione di Bocuse, ricordata da Gualtiero Marchesi, secondo cui «l’egemonia culinaria francese durerà sino al momento in cui i cuochi italiani si renderanno conto dell'enorme patrimonio che hanno a disposizione», ancora oggi le cucine territoriali del nostro Paese hanno bisogno di essere difese e salvaguardate. Ma anche, anzi prima, conosciute e condivise. “La tradizione è un divenire a cui le generazioni contribuiscono, ed è giusto che il loro bisogno di apprendere trovi spazio nelle scuole e il loro bisogno di sognare venga accolto in cucina” afferma Vittorio Fusari. Il problema è che le cucine sono affollate di compositori che non sanno come si esegue. “Come nella musica prima si imparare a leggere e ad eseguire uno spartito e poi, forse, quando si conosce a fondo la materia, si può improvvisare e comporre secondo la propria vocazione, così è in cucina” evidenzia Marchesi, il quale come Rettore di ALMA fa della didattica il punto di partenza, e non di arrivo, sia per l’allievo che per il maestro.
Che si sia cuochi o chef l
Ma se la responsabilità dell’esplosione mediatica appartiene, a detta di Roberto Perrone del Corriere della Sera, per metà al bisogno di trasformare l’uomo comune - nello specifico un cuoco -  in una star con uno stuolo di addetti stampa e per l’altra al cuoco stesso che si ritiene un artista, e quindi un creativo, estroso ed originale per definizione, che posto occupano le altre figure professionali della ristorazione? “Se il sommelier resiste, il maitre è in via d’estinzione e il cameriere non lo vuol fare più nessuno” afferma Alberto Lupini: figure poco valorizzate, anche a causa della poca visibilità che alcuni cuochi concedono loro, e non sempre adeguatamente preparate nelle scuole alberghiere -  leggasi di maitre che non sanno tranciare in sala o di camerieri simil portapiatti.
“Altro aspetto che tocca la categoria è il meccanismo commerciale con cui dobbiamo confrontarci, per cui la presenza degli stagisti non deve superare il 10% del personale e presuppone corsi di formazione sull’apprendistato per tutti” spiega Enrico Bartolini e Moreno Cedroni, come Presidente dei Ristoratori della provincia di Ancona, è portavoce di questo bisogno di crescita, di miglioramento e di tutela della categoria, in cucina come in sala.
Torniamo ai cuochi dunque? Tutte le teste annuiscono, peccato che la slide con i nomi e le qualifiche degli ospiti, proiettata sul palco del convegno, li definisca tutti chef.
“Chef de cousine o capo cuoco? Il confronto è puramente accademico, ciò che conta è che il ruolo sia supportato dalla disciplina come dal talento, e dai fatti.” Lo afferma Roberto Martinelli, direttore di Catering. E forse la vera differenza sta qui, nell’auspicata «cultura dei fatti» su cui pensiamo valga la pena tornare a discutere.

Alessandra Locatelli
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