“La ristorazione è un settore strategico nel campo dell’innovazione alimentare”. Questa affermazione di David Beriss e David Sutton, docenti universitari e co-autori del libro The Restaurants Book: etnographies of where we eat, è tanto più vera oggi mentre cerchiamo di uscire da una crisi che sta terminando di essere sanitaria per diventare sociale ed economica. E, in queste situazioni, oggi più che mai, vanno ripensati al meglio molti ruoli, tra cui quello dei ristoratori e degli chef. Se prima era ormai chiaro che andare al ristorante non significava più solo nutrirsi, ora è certo che questi luoghi diventano un incoraggiamento alla socializzazione (perché più sicuri e controllati di tanti altri), una trasmissione di cultura materiale (il cibo, le materie prime, il vino) e, infine, un valore per il luogo in cui sono collocati. Infatti, in molti casi, i ristoranti definiscono l’anima di un quartiere o delle piazze medievali italiane.
E diventano, grazie alla voglia di sperimentare che, da sempre, è propria del cuoco, soggetti strategici per innovare un comparto, quello alimentare, che troppo spesso è ancorato a logiche che sono legate alla tradizione, all’italianità come elemento identitario. Temi che sono ancora di grande interesse, non voglio dire di no, ma che coinvolgono poco le giovani generazioni che, con il cibo, hanno un rapporto profondamente diverso rispetto non solo ai nonni ma anche ai genitori.
E loro sono i clienti, in un vicinissimo futuro, dei ristoranti.
Innovare in cucina per educare il palato a gusti nuovi, a cibi che cambieranno inevitabilmente con il cambiare del clima e dell’ambiente, è un compito che spetta prioritariamente agli chef per poi raggiungere una platea ben più vasta di persone tramite il coinvolgimento dell’agroindustria.
Mi tornano in mente le parole che Daniel Canzian, lo chef milanese cresciuto alla scuola di Gualtiero Marchesi, ha pronunciato durante uno dei Martedì di Bonvesin della Riva, conferenze organizzate con intelligenza dalla Fondazione Gualtiero Marchesi: “Uno dei nuovi compiti degli chef è fornire le basi di istruzione e formazione per elevare il gusto delle persone, per aiutare le persone a scegliere mentre fanno la spesa, per collaborare con le aziende che producono il cibo onde evitare omologazione e utilizzo di materie prime che siano soprattutto etiche, anche nel prezzo da pagare a chi fornisce queste materie: i contadini e chi raccoglie, gli artigiani e i loro dipendenti”.
Il ruolo degli chef assume così un valore che va ben oltre il successo mediatico, perché diventa il valore di un’intera categoria che si trasmette, in maniera duratura, al benessere sociale.
È un cambiamento epocale e il periodo per iniziarlo è proprio questo, dove le ferite sono ancora fresche, dove le persone hanno capito, in gran parte, che quello in cui abbiamo vissuto era un sistema inadeguato, eccessivo, molte volte inutile. Intervenire ora significa avere un’attenzione diversa da parte delle persone, significa riuscire ad inculcare una mentalità nuova rispetto al cibo e al suo consumo. È un’occasione storica per dare la giusta dignità al mestiere di cuoco, una professione che, per il ruolo che rivestono i suoi protagonisti, è in grado di contribuire al cambiamento dell’intera società. Non è utopia ma conoscenza di quanto si può fare davvero per tutti.