Nel corso della quarta edizione di Retail Food Service il professor Daniele Tirelli, in una delle sue lucidissime analisi, ha fatto un parallelo tra i prezzi alimentari che, negli ultimi 40 anni, hanno visto un calo pari al 60% nella GDO e un aumento dell’80% nei pubblici esercizi. Alla sua riflessione è seguito l’intervento Alberto Salvadego - Country Manager Food Ikea, che ha raccontato i 60 anni di esperienza del colosso svedese nella ristorazione che li ha portati ad affinare ulteriormente quello che, da servizio integrativo, è diventato un grande business: nei ristoranti Ikea mangiano 650 milioni di persone che generano un fatturato di 1,8 miliardi di euro tra i 400 punti vendita. Per restare in Italia, sono stati serviti nell’ultimo anno 30 milioni di piatti per un fatturato globale di 96,9 milioni di euro. Una media di 3,23 euro al piatto.
Qualcuno griderà allo scandalo di un cibo scadente ma, ahimé, potrebbe essere smentito dai 15,4 milioni di italiani che lo hanno consumato nell’arco dell’anno. Allo scandalo, semmai, si dovrebbe gridare pensando ai capitolati di ospedali e mense scolastiche che impongono alle imprese partecipanti menu giornalieri tra i 3 e i 5 euro! Menu giornalieri, non il costo di un singolo piatto! Ma questa è un’altra storia su cui torneremo a parlare.
Perché ho riportato questi dati?
Per evidenziare come sia indispensabile cominciare a ragionare in termini di cibo democratico e di come la ristorazione, non quella alta ovviamente (anche se dovrà comunque sempre tenere le antenne dritte), dovrà inevitabilmente imparare ad ibridarsi.
Il calo dei prezzi alimentari pari al 60% in quarant’anni, giusto o sbagliato che sia, ha portato il consumatore a prendere coscienza di quanto costa un pacco di pasta piuttosto che un etto di bottarga, solo per citare due referenze a caso, e compararle con quanto le paga in un piatto al ristorante. Quello più attento ha sviluppato una percezione chiara del prodotto, lo vediamo dalle mille domande (sempre più competenti) che ogni ristoratore si trova di fronte quando va a raccogliere una comanda.
Questo fenomeno ha portato ad una crescita di momenti conviviali in casa, anche grazie al food-delivery, piuttosto che alla nascita degli home-restaurant, ma anche alla scelta di andare a cena in luoghi dove il prezzo è democratico, dove la convivialità è garantita, l’informalità e la leggerezza di una serata diventano uno dei motivi di scelta.
Per fortuna che, a differenza del resto del mondo, in cui i luoghi di consumo si concentrano sempre di più nei grandi mall, in Italia abbiamo ancora un modello che resiste: la trattoria, il luogo per eccellenza del cibo democratico!
Lì, in quei luoghi dove la dimensione familiare, dettata spesso dalla conduzione, ancora rappresenta la garanzia di un piacere solitamente assicurato perché si mettono in gioco in prima persona tutti, dal titolare al cameriere, si può coltivare il futuro della ristorazione italiana. Certo, sono necessari piccoli e grandi cambiamenti, ma non all’insegna dello scimmiottare l’alta ristorazione (è la strada più sbagliata che possono intraprendere i cambi generazionali in atto) bensì nella capacità di far aleggiare con sapienza e costanza il giusto spirito dell’accoglienza, nella bravura nel saper proporre o riproporre con tecniche nuove un piatto della memoria, di quelli che generano il cosiddetto comfort-food o il proustiano effetto madeleine.
Questo è ciò che cerca chi, in Italia, sceglie di mangiare fuori. Non sono bocche da sfamare, sono cuori da soddisfare e il cibo democratico può riuscirci.
Luigi Franchi
direttore di sala&cucina