Questa è la testimonianza di Roy Caceres, chef colombiano arrivato in Italia nel 1993 che ha cominciato come lavapiatti in un ristorante di Misurina, sulle Dolomiti.
“Mi sono proposto di dargli una mano e ho iniziato a imparare. Mi regalò lui il mio primo libro di cucina L’arte della cucina moderna di Henri-Paul Pellaprat. Una sorta di Bibbia per cuochi. Me lo regalò fotocopiato, perché era introvabile (Testo didattico di riferimento, stampato nel 1935, offre una raccolta attenta e dettagliata delle tecniche di cottura e conservazione, del corretto uso delle spezie, dei procedimenti di base, ndr). Leggevo con avidità e guardavo le preparazioni dello chef. Ho sempre pensato che i libri e le persone siano fonti di incredibile saggezza. Poi ho iniziato a comprare la rivista Grand Gourmet, all’epoca costava 20.000 lire, non era poco. Ma mi ero appassionato a quella materia che richiamava tanti ricordi e risuonava con il mio piacere di mangiare”.
Lui ha trovato uno chef che gli ha insegnato il mestiere, ma è uno dei pochi che ha avuto questa fortuna, altri, molti altri continuano, per una vita intera, a fare il lavapiatti.
Ruolo fondamentale nella vita di un ristorante! Per davvero! Uno chef può sempre essere aiutato dalla brigata, un cameriere dallo chef che porta i piatti in sala, ma il lavapiatti è sempre solo, non può ammalarsi, verrebbe, in alcuni casi, subito licenziato proprio a causa della sua indispensabilità. In altri, rari, rarissimi, è accolto all’interno della brigata come uno di loro, ma le ore che passa nelle cucine del ristorante solitamente sono ore di silenzio, duro lavoro, rimproveri. E di loro che garantiscono il perfetto funzionamento di mille serate si sa molto poco: i manuali dicono che lo stipendio annuale è di 29.000 euro, ma non si sa se sono netti (improbabile) o lordi e, quindi, all’incirca 1.000 euro al mese. Molti sono stranieri che, a volte, non parlano neppure italiano.
Ma sono indispensabili, dicono tutti i ristoratori, tutti gli chef, tutti i maître del Paese.
Allora facciamo in modo che questa indispensabilità sia davvero premiata, non limitiamoci a dirlo. Facciamo in modo che almeno la scarsa vita sociale di una brigata li veda coinvolti, che anche loro possano dire la loro sui modelli di gestione della ristorazione italiana. Non usiamo solo termini più forbiti per definirli, come ad esempio, addetti alla plonge; fa persino figo.
Le loro mansioni, solitamente, sono le seguenti:
- Lavare a mano o in lavastoviglie piatti, bicchieri, posate, strumenti e utensili di cucina, avendo cura di ripulirli tutti da avanzi e residui;
- Asciugare piatti e stoviglie e riporle al loro posto;
- Pulire affettatrici, impastatrici, forni, frigoriferi, cappe aspiranti e tutte le altre attrezzature all’interno della cucina, controllandone sempre il funzionamento;
- Pulire, igienizzare e disinfettare i pavimenti e le superfici di lavoro della cucina alla fine di ogni turno, attenendosi alle norme igieniche previste;
- Fornire supporto alle operazioni di preparazione delle pietanze al cuoco e al personale di cucina quando richiesto;
- Mantenere costantemente l’ordine e la pulizia in cucina, riordinandola alla fine di ogni turno e preparando gli strumenti per l’uso in maniera che tutto sia pronto per il turno successivo;
- Gestire lo smaltimento dei rifiuti;
- Aiutare nelle fasi di approvvigionamento del magazzino e di ritiro dei prodotti da parte dei fornitori.
Da qui si capisce l’importanza che rivestono, eppure il tutto è per uno stipendio base che varia dai 660 euro al mese ad un massimo di 1.000 euro.
Una vergogna, visto che, da più parti, sono definiti, giustamente, indispensabili per il buon funzionamento del ristorante. E una contraddizione in termini se poi parliamo di benessere dei clienti, mentre si fa ancora molto poco per il benessere di chi ci lavora.