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Enzo Vizzari: la professione di critico implica una lucida predisposizione alla ricerca

17/05/2018

Enzo Vizzari: la professione di critico implica una lucida predisposizione alla ricerca
Enzo Vizzari si definisce persona fortunata perché, intorno ai cinquant’anni, ha definitivamente trasformato in professione ciò che è stata la passione della sua vita. Ma la competenza, in fatto di cibo, si è formata ben prima di quella data; nella sua famiglia, ogni volta che ci si trovava a tavola, si rifletteva su ciò che veniva servito, sul valore del cibo, sulle implicazioni (anche sociali) dell’alimentazione.
Quella prima scuola gli è stata sempre di grande aiuto, abbinata ad una curiosità che lo ha portato ad affinare la dote forse più essenziale per un critico di enogastronomia. Infatti, alla domanda che apre quest’intervista su come si diventa critici e recensori, il direttore delle Guide de L’Espresso risponde così.
“Mangiando, bevendo. Tanto, ma con il cervello e non con la pancia. Senza pregiudizi, con un approccio laico, aperto ad ogni situazione e, soprattutto, senza scuole di pensiero che possano condizionare. E poi bisogna saper scrivere, bene! Un testo, in una guida, non deve mai scivolare nell’autocelebrazione di sé, o in quella dello chef. Deve saper raccontare con estremo rigore e lucidità. Solo così si diventa credibili e autorevoli”.
Enzo Vizzari critico lo è diventato poco tempo dopo l’inizio di una carriera che con il cibo e la ristorazione aveva forse un’unica affinità: il viaggio, gli spostamenti…
“Infatti il mio percorso professionale si snoda tra Pirelli, dove ero capo ufficio stampa, Confindustria dove sono stato prima responsabile relazioni esterne a Brescia e poi direttore generale della sede di Biella. Occupazioni che mi facevano viaggiare molto, sia in Italia sia all’estero, e dove ho ritrovato la mia mai abbandonata, fin da adolescente, voglia di visitare ristoranti, scoprire nuovi piatti. Dimenticavo, per un certo periodo sono stato anche il più giovane assessore d’Italia, in comune a Vercelli”.
E il piacere di scrivere di cibo e ristoranti quando inizia?
“Alla fine degli anni ’70, prima su Brescia Oggi poi sul Giornale di Brescia, con lo pseudonimo di Aldo Corte, mutuato dal nome di mio padre e dal cognome di mia madre. Nel 1983 inizio la collaborazione con la Guida de L’Espresso, sotto la direzione di Federico D’Amato; collaborazioni con Grand Gourmet e rubrica fissa sul Corriere della Sera, vice-curatore della guida ai tempi di Edoardo Raspelli e, dall’edizione 2001, direttore delle Guide de L’Espresso, una guida che quest’anno ha celebrato i suoi primi quarant’anni con la quale ho un rapporto continuativo ormai da 36 edizioni”.
Torniamo al mestiere di critico: come scegli i tuoi collaboratori?
“Il mio percorso, appena descritto, ha un origine: fin da ragazzo spendevo ogni mio soldo guadagnato in ristoranti e nella conoscenza vera non solo dell’Italia ma anche della Francia. Prima per i ristoranti e poi sui vini. E sul vino, per capirlo e poterne scrivere, occorre una sensibilità diversa che arriva solo accumulando esperienza e studio. E la Francia, in questo mi ha aiutato tanto. La scelta dei collaboratori subisce, almeno in parte, queste influenze. Ogni anno arrivano diverse candidature; attualmente la guida può contare s una rete di circa novanta collaboratori e otto coordinatori territoriali, il mio vice è Andrea Grignaffini. Con i collaboratori, soprattutto le new entry, cerco di andare a mangiare assieme, per capire il loro approccio, vedere quanto capiscono. E soprattutto vedo come scrivono perché la nostra, a differenza della Michelin che è una guida per turisti, è una guida per enogastronomi”.
Veniamo alla guida e a un’interpretazione necessita di un chiarimento: in un’occasione hai affermato, suscitando un acceso dibattito, che la guida da te diretta si limita a dare un giudizio solo sulla cucina e del resto poco importa…
“Ti correggo subito. Alla cucina va il voto. Tutto il resto è esplicitato nella recensione che mette in evidenza ogni altro aspetto del locale: servizio di sala, storia, stile di cucina e di accoglienza. Aspetti che ritengo importantissimi”.
L’imprenditoria nella ristorazione: qual è lo stato dell’arte?
“Sta crescendo, per fortuna. Non ci si può permettere di essere ristoratori (attenzione, non cuochi) senza essere imprenditori. Ci possono invece essere eccellenti cuochi senza essere imprenditori e lì sta forse il problema, perché è indispensabile, quando si è patron di un ristorante saper agire su più fronti, anche aprendo ad un management la propria struttura se è necessario”.
Come è cambiata, sotto i tuoi occhi, l’Italia gastronomica?
“Come oggi non si è mai mangiato così bene in Italia, a tanti livelli. Fatta questa premessa siamo arrivati a questo risultato attraverso momenti di cambiamento strutturali, il cui inizio coincide con l’avvento delle guide fatte in Italia per la ristorazione italiana; penso a quelle che ho definito, nel racconto dei quarant’anni della nostra guida, l’era Marchesi, l’era Vissani-Pierangelini, fino al decalogo della Nuova Cucina Italiana redatto nel 2007, che rivendico con orgoglio. Da allora c’è stata una grande evoluzione professionale e culturale nel mondo della cucina italiana. Il nostro compito risiede proprio in questo: dar conto, non solo delle singole eccellenze, ma di capire e far conoscere quello che sta succedendo intorno”.
A questo proposito, pur trovandolo ancora di grande attualità, cosa toglieresti, se c’è da togliere, e cosa aggiungeresti al tuo decalogo?
“Farei una sola aggiunta: avere un po’ più di senso critico nell’importare modelli. L’apertura è un fattore positivo, ma a volte è opportuno farlo in modo critico per evitare di snaturare la crescita che sta vivendo proprio la cucina italiana”.
Ti emozioni ancora?
“Oh, si! Il giorno in cui non dovessi più provare emozione smetterei immediatamente questo lavoro. Trovo ancora grandi piatti che mi fanno provare un’emozione completamente nuova; apro ancora certe bottiglie che mi lasciano folgorato per ciò che sprigionano. Non voglio svelarti aneddoti per evitare ridicole interpretazioni di simpatie verso uno o l’altro dei tanti cuochi che conosco, ma ti garantisco che di emozioni ne provo sempre più spesso, a conferma di ciò che dicevo poc’anzi: oggi in Italia si mangia molto bene!”
Come riconosci un potenziale cuoco di razza? Una volta hai fatto un mea culpa sul fatto che la tua guida aveva sbagliato il giudizio su Bottura…
“Ricordo bene quell’episodio. Mi fermai, prenotando come faccio da tutta la vita sotto falso nome…”
Ti interrompo perché mi devi spiegare bene questa scelta…
“Lo faccio sempre. Non serve nascondersi, il mio volto è noto, ma prenotando sotto falso nome non genero trattamenti di favore, anche se poi ci provano in molti; Del resto, uno la materia prima eccellente o ce l’ha o non ce l’ha. Trovo invece particolarmente odioso, guardandomi intorno, vedere tavoli di serie A e di sere B nel servizio”.
Torniamo ai cuochi di razza…
“Arrivato all’Osteria Francescana, per la prima volta, mi rendo conto della genialità di Massimo Bottura e, dopo aver rimosso l’autore della scheda, scrivo l’articolo su L’Espresso il cui incipit era: scusate il ritardo! Tornando alla domanda iniziale: tu puoi mangiare cento volte i tortellini o gli agnolotti, ma quando hai la sensazione di non averli mai mangiati così, vuol dire che quello è o sarà uno chef di razza”.
Si parla sempre più spesso dei problemi della sala: è davvero tutta colpa della televisione che propone sempre e solo cuochi?
“Non credo. Il grande vuoto che abbiamo alle spalle nella cultura della sala in Italia è ben più antico. Dobbiamo invece impegnarci tutti per colmare questo gap, fare in modo che il mestiere di sala smetta di essere considerato svilente; chi scrive di ristorazione deve dedicare attenzione maggiore a ciò che succede in sala, evidenziare e dare valore ai tanti bravi davvero che ci sono”.
Un ideale viaggio in Italia dove ti porta a individuare le aree di crescita e innovazione?
“Fermo restando che la Lombardia è tutto, ma anche il suo contrario, ritengo che oggi la regione più dinamica e innovativa sia il Veneto. Lì stiamo assistendo ad una bella crescita di ristoranti che hanno saputo rinnovarsi, di nuove interessanti aperture e di giovani molto determinati. Mentre una regione che si è da troppo tempo seduta, e lo dico a malincuore, è la Toscana. Si muovono bene Puglia e Calabria, mentre quella più imbarazzante è la Liguria che vive da troppo tempo una rendita di posizione”.
Infine, le guide hanno ancora senso di esistere?
“Se qualcuno deve affrontare un semplice viaggio e ha bisogno di qualche indicazione di massima più che affidabile per bere e mangiare, io dico: compra la Michelin. Se qualcuno, invece, ha una curiosità e una forte motivazione ad affrontare un viaggio per scoprire i luoghi del mangiare, per avere maggiori informazioni, io dico: compra la mia guida”.
Come si determina l’autorevolezza?
"Io dico sempre che l’affidabilità non è data dal mezzo, carta o rete che sia, ma dal fatto che, nel nostro caso, i fruitori della guida non ricevono fregature e non si lamentano. Per i ristoratori dico sempre che essere in guida, quindi essere uno dei 2.000, è già di per sé un valore, pensando che fuori rimane il 99% dei locali italiani”.
Cosa dobbiamo imparare dalla ristorazione internazionale e cosa possiamo insegnare?
“Possiamo insegnare la grande attenzione che noi diamo alla cultura di prodotto e alla selezione della materia prima. Dobbiamo imparare a gestire grandi numeri con alta qualità, oltre alla capacità, che hanno molti paesi, di investire nell’accoglienza”.

Luigi Franchi

L'intervista apre l'ultimo numero di sala&cucina che potete scaricare qui 
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