Nel cercare di dare una definizione di accoglienza si può essere anche abbastanza allineati.
La differenza si gioca nel praticarla.
Monia Remotti, responsabile dell’accoglienza del Florian Maison Relais e direttore di sala dell’annesso ristorante stellato Umberto De Martino di San Paolo d’Argon (BG), concepisce l’accoglienza come “quel modo di ricevere amorevole, attento a cogliere cosa il cliente si aspetta da te, di cosa ha bisogno”.
Ma fino a dove si è disposti ad arrivare, rispetto a ciò che si coglie?
Una persona che si svela a noi può aprire un mondo. Siamo pronti , o meglio, siamo aperti a questo? E ancora, c’è un limite nell’accoglienza, un punto oltre il quale non è più cosa che ci riguarda?
Molti gli interrogativi sollevati da una storia forte che non siamo andati a cercare ma è arrivata a noi con una naturalezza spiazzante. Non l’abbiamo cercata, dicevamo, ma abbiamo a quel punto voluto saperne di più e chiesto il permesso di raccontarla, sì il permesso, considerando la discrezione con cui è stata vissuta.
“È fine febbraio 2020, l’inizio di un periodo destinato a rimanere bene impresso nella nostra memoria, quando una cliente, responsabile del blocco Croce Rossa Bergamo Interland, passa dall’hotel per sapere come stiamo - racconta Monia Remotti -. Ci dice di quanta gente stia arrivando in ospedale. Io e Umberto, le chiediamo se si ferma a pranzo. Lei ci confessa che sono tre giorni che non mangia. Intuiamo che ci sono dei problemi e istintivamente chiediamo se possiamo essere di aiuto. Ci risponde di essere in difficoltà per gli operatori sanitari, una ventina, che collaborano con lei. Le proponiamo di pensare noi gratuitamente ai pasti. In quei giorni il ristorante rimane aperto solo a pranzo. Poche settimane dopo, quando la chiusura diventa totale, siamo noi a chiamarla dicendo che abbiamo molta disponibilità di prodotti (le nostre celle sono piene, avendo fatto la linea del ristorante) e che potremmo aiutarla di più, ignari di quello che sarebbe stato il prosieguo”.