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Francesco Carfagna, il fatalista

21/04/2022

Francesco Carfagna, il fatalista

La sua voce cantilenante, scandita da lunghi respiri, è espressione di un fatalismo contadino che, all’opposto della rassegnazione, è presa di coscienza laica che la natura deve essere assecondata, non oltraggiata e umiliata dall’uomo, così come recita un antico detto contadino: Se dalla terra vuoi di più falle carezze.


Francesco Carfagna è persona non comune, come inusuale è la torre in cui vive con la moglie Gabriella, casa e cantina, in guardia alta al mare del Giglio, ricordo incompiuto pare d’un mulino a vento. Lui è un vignaiolo resistente, come le sue vigne che s’incurvano ai venti salmastri e tengono testa agli attacchi di mufloni e conigli selvatici.


La storia sua e del suo vigneto Altura nell’isola del Giglio principia in modo all’apparenza casuale nel 1987, con una vacanza in un albergo raggiungibile solo in barca o a piedi, l’Hotel Hermitage a Cala degli Alberi, ospite di vecchi amici, la famiglia Pardini.

Anche Gabriella si trovava in vacanza in quell’albergo e scattò la scintilla che fece prender loro la decisione di lasciare tutto per trasferirsi sull’isola di cui lui subiva il fascino fin da bambino. Da allora sono passati trentacinque anni e sono sempre là.

Il Tirreno visto dalla Torre dei CarfagnaIl Tirreno visto dalla Torre dei Carfagna

Dall’87 fino al 2008, nel borgo medievale di Giglio Castello aprono il ristorante Arcobalena con l’insegna “Vini Vivi e Cucina”, un accogliente locale con una trentina di coperti. Mentre Gabriella era la regina della sala e preparava i dolci, gli sformati, le torte salate, la cucina che lui definisce ironicamente ‘bestiale’, carne e pesce, solo prodotti locali freschi dal mare e dalla campagna, la faceva lui, con cotture eseguite al momento.

E quelli che non mangiavano né carne né pesce li liquidava con una battuta: E che gli diamo il pollo? 
Il menu si chiudeva con questa sentenza: Amati da chi ci ama e detestati da chi ci detesta, così e qui siamo. Salute e fortuna, Famiglia Carfagna”.

Nel contempo, disattendendo ogni consiglio e andando controcorrente rispetto al fenomeno di abbandono della faticosa agricoltura isolana, acquista cinque ettari di terreno, di cui tre vitati, in stato di semiabbandono su dei terrazzamenti a sud dell’isola, verso Punta Capel Rosso. Lavorando sempre a mano rimette in sesto i muretti e recupera le vigne di Ansonica, uva autoctona gigliese, di Sangiovese e altri vitigni locali con ceppi che hanno dai trenta ai sessant’anni di vita.

La torre-mulino della famiglia CarfagnaLa torre-mulino della famiglia Carfagna

Fare vino non era il suo mestiere ma tradizione di famiglia assorbita fin da ragazzo affiancando suo padre nel Molise. La sua prima vendemmia al Giglio risale al 1999. A quei tempi sull’isola c’erano ancora gli irriducibili, così li chiama lui, ai quali essere grati, quelli che hanno conservato ciò che in gergo tecnico si chiama il germoplasma autoctono. Però tutto stava andando in un abbandono crescente, ogni anno le vigne diminuivano. 


I Carfagna sono stati i primi e per molto tempo gli unici che hanno investito e creduto in un’agricoltura così ardua e difficile. Dopo che hanno visto che funzionava altri ci si sono messi. Un tempo metà della superficie del Giglio, intorno a mille ettari, era lavorata, il resto era principalmente pascolo per pecore, capre, qualche vacca e maiali. Era un’economia che funzionava molto bene. Oggi si arriva a stento a 14 ettari di vigna, e lo chiamano progresso. 

LL'Ansonaco, vitigno autoctono, della famiglia Carfagna

Il lavoro nei campi e specialmente nella vigna nelle piccole isole era e rimane bestiale, la remunerazione irrisoria. Se si lavora per il proprio consumo è un conto, ma se ci devi anche campare… “Chi è che viene qui a investire in un’attività che deve essere tutta manuale?” si chiede Francesco. Il Giglio si può paragonare a posti come le Cinque Terre, la Valtellina e certe colline di Candia. Pensiamo all’Elba: tutte le terrazze che non sono praticabili da un trattore sono state abbandonate.

 

Nel suo vigneto Altura ci sono terrazze di mezzo metro quadrato con dentro una sola vite, ogni giorno a contendersi i germogli con conigli selvatici e mufloni, quest’ultimi importati a metà degli anni Cinquanta per allevarli e venderli alle riserve di caccia. Divenuti da tempo invasivi e dannosi per coltivazioni e biodiversità nel 2021 e si è determinato di eradicarli in quanto specie non autoctona grazie a un progetto finanziato dalla UE con 1,6 milioni di euro. Così, l’ultima vendemmia è stata abbastanza bella, la penultima è stata tutta distrutta da quei mufloni che non sono certo patrimonio ancestrale isolano.

Francesco Carfagna nel suo vigneto Altura.Francesco Carfagna nel suo vigneto Altura.

Da tempo anche sua figlia lo affianca anche se lui nega di esserne il maestro, considerando piuttosto l’ambiente come scuola. Lei ha frequentato moltissimo i vecchi maestri vignaioli del posto e ha fatto anche un sacco di esperienza fuori dal Giglio. 

L’ultima vendemmia? Adesso stanno aspettando il 2021 dell’Ansonica, verso maggio, il rosso invece lo fa uscire dopo circa tre anni.

 

Alla fine della lunga chiacchierata mi ha salutato dicendo: “prima di tutto dobbiamo ringraziare quei pochissimi che non hanno mai abbandonato, che sono quasi tutti morti tranne uno, finora. Poi, più produttori siamo meglio e più terra lavorata c’è meglio è, anche se nessuno vuole venire qui a fare tutto ‘sto lavoro o a spendere denaro per farlo fare a qualcun altro, perché per curare questa terra bisogna viverci, esserci ogni giorno, non puoi farlo per posta”. 


Bruno Damini

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