Si può codificare la cucina italiana?
“Ẻ difficile, probabilmente impossibile. La biodiversità, i territori hanno fatto crescere la nostra, o meglio, le nostre cucine. Questa è la cucina italiana! Diversa ad ogni campanile e il campanilismo ha fatto crescere i popoli, perché ad ogni prodotto corrisponde un valore, un senso di appartenenza, uno stile di vita che genera emulazione”.
Da parte tua, negli ultimi anni, c’è l’affermazione del valore delle cucine dei territori; come si riesce a creare equilibrio tra storia, tradizione e ricerca, innovazione?
“Non perdendo di vista la conoscenza e la manualità. Il rischio più grande è quello di non riuscire più a riconoscere quello che stiamo mangiando: viene smolecolato tutto, si esaltano le basse temperature fino all’eccesso. Un maialino di 35 chili spinto ad una cottura di 72 ore si sfibra, non si riconosce più. La bassa temperatura fa perdere la conoscenza e la manualità, sono cotture che vengono poi abbattute e rigenerate senza più quell’intervento simbolo di competenza che sono le mani del cuoco. Non si cucinerà più!”
E quindi?
“E quindi bisogna interrompere la tendenza che può portare alla distruzione dei territori. Bisogna evitare di alterare, o meglio stressare, prodotti che hanno una storia nobile: che senso ha fare l’acqua di Parmigiano Reggiano? Quaranta chili di formaggio per fare l’estrazione dell’acqua? Ma stiamo a scherza’! come mi è capitato di vedere. Il Parmigiano Reggiano va esaltato per la sua forma, la sua naturale grassezza, la sua storia. E questo vale per tutte le straordinarie materie prime italiane. Vedi, io tanti anni fa sono tornato a casa, dopo le esperienze nelle grandi cucine internazionali, proprio per tornare al territorio italiano, alla straordinaria semplicità di un buon olio, di un pomodoro, di un formaggio, cercando di fare dei piatti nuovi ma partendo dai sapori e dagli ingredienti del luogo. E questo, dopo anni di spume, sferificazioni, estrazioni, sta ritornando. L’unica speranza è che non venga classificato come una moda”.