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Gli italiani sono allergici alle mance?

08/05/2025

Gli italiani sono allergici alle mance?

La mancia è una forma di riconoscimento del lavoro di chi fornisce un servizio per il quale è già pagato, ma a cui si vuole offrire un premio per come questo si è svolto.

Questa affermazione non solo non è del tutto corretta, ma contiene uno dei motivi per il quale, noi italiani, abbiamo una certa idiosincrasia a lasciare una mancia.

L’argomento ciclicamente si ripresenta, ancor più oggi che l’uso dei pagamenti digitali sta facendo dimenticare con maggiore frequenza questa pratica, per alcuni una gentilezza, per altri una noiosa e obsoleta usanza.  Interessante, dunque, affrontarlo cercando di osservarlo da diverse angolazioni, quelle del cliente e del ristoratore, approfondendo sociologia dei comportamenti e usi diversi a seconda dei luoghi.

 

Chi viaggia all’estero ha avuto modo, prima o poi, di confrontarsi con usanze diverse dalle nostre quando si trova al ristorante. Se da noi dare una mancia è considerata azione spontanea non obbligatoria, in alcune nazioni, in particolare gli Stati Uniti, la si può definire quasi obbligatoria, quantomeno un dovere morale. Queste differenze di approccio, per gli italiani, sono un ulteriore aggravio dello stato d’ansia che genera questo gesto che, invece,  dovrebbe essere atto di generosità e, dunque, piacevole.

 

Analizzando la principale differenza tra Stati Uniti e Italia si rileva che nei ristoranti d’oltreoceano spesso il compenso dei dipendenti, in particolare quelli di sala, è dovuto esclusivamente alle mance, il conto (bill) è interamente incassato dall’impresa per coprire tutte le spese, tranne gli stipendi. Ciò che rimane è l’utile della proprietà.

Pertanto, è comprensibile che, quando si paga il conto, ci si senta richiedere una percentuale minima di mancia, perché, altrimenti, senza quell’ammontare, una parte dei dipendenti, se non tutti, dovrebbero rinunciare al compenso o a parte di esso.

Questa dinamica economica, permessa in virtù di leggi diverse dalle nostre, è alla base di una cultura calvinista del lavoro in cui è il merito che viene premiato e la mancia è la miglior rappresentazione di questo riconoscimento del valore di un servizio. Se mi accolgono bene, se mangio bene, se chi mi serve mi fa vivere una bella esperienza, sarò ben disposto ad aggiungere quel tanto che si ritiene commisurato al costo del pasto.

 

Tutto questo, però, era incrollabile fino a prima della pandemia di Covid 19, poi qualcosa è cambiato, soprattutto nella consapevolezza che questo modello non fosse così equo.

La testimonianza di Riccardo Sala, che vive e lavora in Florida da diversi anni, con esperienza da dipendente di grandi catene alberghiere, ma anche di imprenditore da quando ha avviato il suo laboratorio di pasta fresca a Orlando, è illuminante e apre un nuovo scenario su rapporti di lavoro che sembravano eternamente immutabili.

Come accennato, parlando di ristorazione, lo schema prevede che la cucina sia salariata, mentre la sala si suddivide la somma delle mance. Ciò, nel tempo, ha creato una sperequazione basata sulla percezione sbagliata che il cuoco lavori per passione, accontentandosi dello stipendio stabilito e il cameriere, invece, lavori per conquistarsi il favore del cliente, senza particolari meriti, visto che, peraltro, il piatto è preparato dalla cucina. Inoltre, la sala, ha sempre giocato sull’imprevedibilità della mancia per giustificare il proprio ruolo “precario”. La conseguenza, basata sui fatti, è stata che un cameriere, pur con molte meno ore di un cuoco, ha sempre guadagnato di più. Non solo, oggi alcune compagnie come la Disney di Orlando, hanno introdotto una percentuale minima obbligatoria, cosa che sta ulteriormente facendo diminuire quella ricerca del merito in cambio di mancia che prima, almeno, dava un senso al lavoro dei camerieri, spesso avventizi, creando situazioni limite in cui, per chi ha il turno della colazione a buffet il massimo dell’impegno è chiedere quale bevanda calda servire e portare il conto, tanto la mancia è assicurata. Insomma, a queste latitudini, per molti, ormai, le mance sono il male della ristorazione.

 

Tutto ciò sta formando una nuova consapevolezza sul valore del lavoro nei dipendenti e negli imprenditori: l’imperativo è “prendersi cura”, perché solo creando un ambiente positivo in cui impegno e competenza vengono riconosciuti, si lavora meglio e si ricava tutti di più.

Sul tema più in generale del livello dei salari e del costo della vita torneremo a scriverne con approfondimenti specifici.

 

Tornando alle mance, in altri Paesi l’abitudine o la regola non scritta di lasciarle dopo aver mangiato è molto diffusa. A Hong Kong, ci racconta Paolo Monti del ristorante AMA, si usa aggiungere il 10% del conto, ma se i clienti sono americani, spesso, si riceve di più, minimo il 15% e, normalmente, si suddivide con tutto il personale di sala e cucina, personale che, comunque, ha uno stipendio. 

Nei Paesi Bassi è certamente una forma di gradimento, descrive Fabio Cappellano, cuoco e imprenditore da decenni in Olanda, e il minimo che si lascia è del 10%. Quando si usavano i contanti si lasciava il resto e poi si aggiungevano tagli che finivano per superare quella soglia, ora che il pagamento digitale è diventato la norma, più semplicemente, si aggiunge la percentuale scelta già cliccabile sui dispositivi.

 

Interessante la situazione in Egitto, illustrata da Vincenzo Guglielmi, ristoratore con più di 23 anni di presenza nel Paese dei Faraoni. Anzitutto la mancia è considerata quasi un obbligo, proprio per sopperire al basso livello degli stipendi. Lo stato impone il 12% di “service charge” sul conto. Di questa cifra il 3% è destinato allo staff, il 65/70% copre le spese, il resto sono tasse. La parte di spese si intende per eventi imprevisti o per incidenti sul lavoro, tema sul quale c’è molta solidarietà da parte delle compagnie che arrivano, in un caso noto a Guglielmi, a sostenere a vita la moglie di un pasticcere deceduto sul lavoro.

A fronte di questi esempi virtuosi ci sono, però, proprietà che usano parte del “service charge” per spese che già sarebbero coperte dal conto, come l’elettricità, facendo, così, diminuire la parte destinata ai dipendenti. I clienti, consapevoli, di queste ingiustizie, sono propensi a lasciare mance ulteriori. Infine, ci sono ristoratori che suddividono equamente le quote, come Guglielmi, altri che le ripartiscono a seconda del tipo di qualifica.

 

Tornando all’Italia, le testimonianze di alcuni addetti ai lavori avvalorano il disagio che questa addizione al conto comporta. Non solo, perché riteniamo che chi ci serve sia già remunerato dallo stipendio, ma anche per la presenza della voce “coperto”, vissuta come una sorta di fastidiosa gabella. Tutto ciò, unito all’avvento diffuso dei pagamenti in forma digitale, concorre ad aumentare l’allergia alla mancia e a farla diventare un pallido ricordo. Ciò sembra non valere per gli stranieri che portano nel nostro Paese le loro abitudini.

 

Come uscirne? Forse bisognerebbe anzitutto affrontare il problema, prima accennato, del livello di retribuzione, riportandolo a una situazione che, proporzionata ai costi, permetta a chiunque ha un lavoro di condurre una vita più che dignitosa e serena. A quel punto la mancia tornerà a essere un’erogazione spontanea, basata su empatia e merito, ma sarà un di più, come deve essere, cancellando, così, dubbi e recriminazioni su ripartizione e sperequazioni.

a cura di

Aldo Palaoro

Giornalista ed Esperto di Relazioni Pubbliche, da quando non si conosceva il significato di questo mestiere. Ha costruito la sua professionalità convinto che guardarsi in faccia sia la base di ogni rapporto. Organizza corsi di scrittura e critica gastronomica.
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