La scoperta delle sorprendenti porcellane cinesi stimolò una lunga ricerca in Europa per cercare di riprodurre stoviglie di quella qualità e leggerezza. Si dovette aspettare il 1708 perché il principe di Sassonia potesse ottenere i primi buoni risultati dal lavoro di un alchimista e di un fisico grazie ai quali di lì a poco venne fondata la Manifattura di Meissen, vicino a Dresda, che fu subito capitale europea della porcellana, cui seguirono quelle inglesi, olandesi e francesi, intorno a Limonges.
Nel 1861 fu la Manifattura Ginori Doccia ad anticipare quello che molto tempo dopo si sarebbe sviluppato come brand marketing, chiamando Carlo Lorenzini, in arte Collodi, a scrivere un fascicolo storico informativo sulla propria produzione. Negli anni Venti del Novecento, la società ceramica Richard Ginori chiamò il neolaureato in architettura Gio Ponti a ricoprire il ruolo di direttore artistico “sfornando” dei pezzi oggi ricercati da musei e collezionisti.
A seguire, altre manifatture artigianali incaricarono pittori, architetti e noti designer per elaborare forme e decorazioni. Si pensi anche alla ceramica futurista che vide spiccare le creazioni di Tullio d’Albisola, Riccardo Gatti e di quel poliedrico artista totale che fu Fortunato Depero.
Superati i tempi in cui il piatto bianco era considerato un supporto neutro buono per ogni preparazione, la nouvelle cuisine e la nuova cucina italiana, guidata a Milano da Gualtiero Marchesi, rafforzarono il binomio forma-sostanza anche nell’adozione di particolari modelli e colorazioni dei piatti. Esemplare rimane il Riso in foglia d’oro di Marchesi, servito su un piatto nero, mentre la crostatina di Massimo Bottura, Oops! Mi è caduta la crostata al limone, veniva servita su un piatto in ceramica che simulava il riassemblaggio dei suoi cocci.
Quanta ragione aveva l’artista giapponese Kitaoji Rosanjin quando nel 1935 dichiarava: “Se i vestiti fanno la persona, i piatti fanno il cibo”, affermando insomma che è l’abito che fa il monaco. La forma si fa sostanza perché le persone tendono a percepire gli elementi come un’unica entità piuttosto che come parti separate. È evidente quindi che una bella ricetta acquisti valore quando ben disposta su un piatto adeguatamente scelto. Non sono pochi gli chef che elaborano ricette pensate per i piatti o le ciotole in cui porle, e se ne fanno realizzare con particolari forme e colori simbiotici con certe loro preparazioni, così il piatto diventa veicolo di comunicazione.
Se "L'uomo è ciò che mangia", con questa sua opera Martina Liverani ci fa capire che si rispecchia anche “dove” mangia, su quali piatti valorizza il suo cibo.