Mattia, il figlio di Enrico e Sabina, da un paio d’anni lavora al loro fianco e sta prendendo sempre più piede nelle decisioni dell’attività. Curioso ascoltare come ci è arrivato: “Sono nato qui, direi sopra al pianoforte di mio padre (un grande appassionato di musica, nato come musicista al piano bar, ndr) che si trova in una delle sale della trattoria. Per me lavorare a La Busa significa essere a casa, quindi il confine non è semplice da gestire, ma è necessario. Mi sono diplomato all’istituto alberghiero Cipriani di Adria… ho seguito il corso di cucina, e per il consueto stage formativo mi sono recato da Lionello Cera all’Antica Osteria Cera di Campagna Lupia. Sono poi andato a Monselice, al Blue, sempre in cucina. Forse avevo bisogno di uscire, di capire cosa c’era fuori e qualche tempo dopo ho cambiato radicalmente lavoro, mi sono fatto assumere in un supermercato della zona. Non è andata bene: ci sono rimasto fino a poco prima dell’inizio della pandemia, avvertivo che qualcosa non andava. Sentivo che ero dedito all’azienda ma le mie fatiche non venivano ripagate, per noi è importante che ci sia gratificazione dietro al lavoro. Ho chiesto quindi ai miei genitori, che mi hanno sempre lasciato carta bianca, di poter lavorare con loro”.
Un dietro-front non è da tutti, ma ammirevole, soprattutto perché al suo ritorno Mattia ha trovato posto solo in sala, non in cucina.“Penso che per fare ristorazione si debba essere duttili. Conoscere bene le dinamiche di cucina mi ha aiutato a impostare il servizio, a capire i limiti e lo spazio in cui potevo apportare cambiamenti. Allo stesso modo la voglia di capire come risolvere i problemi mi ha aiutato a rispettare tutte le mansioni che riguardano la gestione e l’organizzazione. I miei in questo mi hanno fatto scuola”. Mattia oltre ad essere determinato è anche pragmatico. Non ha la testa piena di sogni, vive il lavoro in sala come una professione da svolgere al meglio, con i piedi saldi per terra.
“Questo è un’occupazione che ti vincola. Alcune componenti della socialità spesso sono compromesse; penso alle mie amicizie, difficile mantenerle quando si fanno certi orari, anche se alcune cose stanno cambiando. Ma è anche un lavoro che insegna molto: io per esempio ho appreso la pazienza. Prima non ero tollerante, ora è indispensabile che lo sia davanti a certe evenienze. Ho imparato che questo non è un mero lavoro, è una palestra di vita, una scuola di movimenti e buone maniere… ed è un corso di psicologia avanzato! Si impara molto nell’ascoltare e osservare gli altri”.
Mattia c’ha messo del suo da quando è arrivato: oltre alla digitalizzazione del menu ha snellito la mise en place, sviluppato la carta dei vini e introdotto due selezioni, una di gin e una di rum. “Un cliente un giorno mi ha chiesto se avevo del buon gin. Mi si è aperto un mondo; li avevamo in casa ma ne sapevo poco o nulla. Ho iniziato a studiare, a documentarmi, ad arricchire la proposta, a farmi recapitare etichette particolari dai nostri fornitori. Ho capito che non voglio essere impreparato di fronte a una richiesta, e se lo sono faccio di tutto per recuperare. Oltretutto questa mossa ha generato completezza dell’offerta: se prima un cliente prendeva il dessert e gli altri tre nulla, oggi uno prende il dolce e altri due provano un distillato, magari abbinandolo ai nostri cioccolati. Ammetto che essere diventato per alcuni clienti un punto di riferimento è una soddisfazione immensa, per di più in una professione che non mi sarei mai aspettato di intraprendere. Devo molto a chi qui dentro ha creduto in me senza opporre resistenza alle mie idee, lasciandomi margine nelle proposte. Le strade aperte mi danno entusiasmo”.