C’è un pesce che sa di fiume e di storia, di mani callose e di ricorrenze segnate in rosso sul calendario popolare. È il luccio, e nelle cucine di Rivalta sul Mincio – borgo poetico e silenzioso del mantovano – non è solo un ingrediente: è un racconto, un rito, un gesto che si tramanda da generazioni.
Il luccio alla rivaltese, in bianco o in salsa, non si limita a nutrire: parla. Racconta di quando la pesca era sopravvivenza e non sport, di quando le cuoche – spesso mamme e nonne – sapevano districare con le dita la selva fitta di lische senza l’aiuto di pinze da chef. Parla di stagioni e di acque, di fiere e di feste. Soprattutto quella del Mercoledì delle Ceneri, che a Rivalta valeva come il Natale: niente scuola, niente pesca, tutti in cucina.
Il fiume Mincio, con i suoi 74 chilometri di curve pigre e canneti mossi appena dal vento, è stato il cuore pulsante di questa tradizione. Le sue valli – zone umide straordinarie, oggi riserva naturale – sono state per secoli la dispensa viva del paese. Qui si pescava e si costruivano batèi, si intrecciavano reti, si calavano le nasse. E si teneva “il pesce in viva”, cioè dentro a speciali casse di legno chiamate bürc, immerse nel fiume per depurare il pesce dall’odore di fango e conservarlo fresco. Un sistema ingegnoso, sostenibile ante litteram, che oggi avrebbe il sapore di un brevetto green.