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Il tempo e il cibo - Prima Parte

11/12/2022

Il tempo e il cibo - Prima Parte

“La farfalla non conta gli anni, ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta”. 

Leggendo, a pochi giorni dall’uscita di questo numero, la frase dello scrittore bengalese Rabindranath Tagore, premio Nobel nel 1913, mi ha rapita il finale, “il tempo le basta”.

Ho pensato fosse destino che affrontassi, nell’ultimo mese dell’anno, uno dei più complessi e accelerati del mondo moderno, il tema del tempo e il cibo.

 

Non è partito tutto da questa delicata e potente affermazione ma da una serie di coincidenze, chiamiamole così, che mi hanno portata a mettere insieme i pezzi, ovvero le interpretazioni e le esperienze rivoltemi nelle ultime settimane da chi lavora nel mondo del cibo. Il quadro si è fatto chiaro leggendo Tagore, partendo da un accento ahimè negativo: alle pochissime farfalle che si incontrano oggigiorno il tempo che hanno a disposizione magari basta, ma all’uomo contemporaneo sembra davvero non bastare più.

 

Il tempo, da amico a nemico del cibo

Mi spiego meglio. Viviamo in una condizione sociale ed economica che ci impone un ritmo travolgente: per poter stare al passo, per non essere da meno rispetto agli altri, il tempo lo dobbiamo ingurgitare, scavallare, a volte addirittura anticipare. Alla faccia che la pandemia ci aveva segnato profondamente.

Mi chiederete cosa c’entra il cibo con questa riflessione. C’entra, c’entra eccome. Perché il tempo, quando si parla di cibo, è sempre più considerato uno scoglio: è un limite da abbattere per essere più produttivi, è un fattore da accorciare per non perdere tempo (per esempio a tavola, o nel cucinare), è un aspetto valutato con rigore dalle industrie alimentari perché anche il centesimo di secondo è prezioso.

Invece il tempo giusto, necessario per fare bene le cose, sin dall’antichità, è stato un fattore essenziale nella gastronomia. 

È l’ingrediente che non si vede ma unisce, amalgama, rende buono, commestibile, digeribile. Il tempo è la variabile che trasforma, allunga, intensifica, dilata. E non è così solo per il cibo, vale anche per l’accoglienza: il tempo agisce sui sapori ma anche sulle sensazioni, le determina, le rende importanti. Ma arriveremo anche a parlare di questo, di accoglienza.

Se è vero che il cibo è lo specchio della società in cui viviamo quello del ventunesimo secolo è un cibo che tende all’ottimizzazione. È un cibo corto, rapido, confacente alla nostra corsa quotidiana. Una corsa molto dispendiosa, in cui spesso finiamo per starcene sulla superficie, per smarrire i valori che contano, per annacquare i momenti, i gesti, i sapori che, invece, andrebbero distillati e poi impressi nel tempo nel modo più semplice e personale che ci sia: la memoria.

Sì, anche la tecnologia ha fatto i suoi danni, a proposito di memoria e ricordi che perdurano. Lo scatto a un piatto prima di assaggiarlo o a una preparazione prima di sapere se effettivamente è venuta buona ne sono l’esempio: abbiamo bisogno di fissare con una foto nella galleria quello che il nostro cervello fa sempre più fatica ad immagazzinare autonomamente, a conservare.

Il tempo e il cibo - Prima Parte

Il tempo nella filiera alimentare

Come è considerato oggi il fattore tempo dalle filiere alimentari? 

Nel cercare di rispondere a questa domanda mi sono ritrovata in un tifone di considerazioni controverse.

Un imprenditore impegnato nel comparto dei prodotti da forno sostiene come, nonostante le moderne tecnologie, il fattore tempo sia imprescindibile per decretare la qualità del prodotto finito

“Per ottenere un prodotto eccellente, distinguibile, con una texture riconoscibile, ci vuole tempo” dice.

Non è una coincidenza se negli ultimi anni il comparto della pasta, ma anche dei lievitati, e molti altri, abbiano messo la lentezza come una componente qualitativa. La lievitazione lenta, l’essiccazione lenta, la maturazione lunghissima… sono tutte espressioni rimarcate in rosso e con caratteri evidenti sulle confezioni che evocano qualcosa di tradizionale e lento, per cui si può spendere qualcosa in più.

Ma le domande da porsi, per chiunque operi nel settore sono: siamo riusciti davvero a veicolare il messaggio? E quello veicolato era sempre vero? Abbiamo reso le persone consapevoli del valore del tempo nella preparazione o le abbiamo solo bombardate con locuzioni commerciali?

Ho chiesto ad alcuni, estranei al settore alimentare e al mondo del fuori casa, di dirmi quale pasta comprano e perché. Il risultato è che sono andati in una direzione senza saperne il motivo. Comprano pasta a lenta essiccazione per fare bella figura con gli amici, perché il mercato glielo suggerisce, esattamente come acquistano i piatti pronti per la settimana perché il mercato gli garantisce praticità e velocità di consumo. Trovate la contraddizione in queste scelte? Non manca qualcosa in questo sistema di narrazione del tempo?

Forse la ristorazione e l’industria non hanno lavorato sempre bene e in sinergia: non basta dire che ci vuole più tempo, bisogna spiegare perché è importante il tempo. 

Lo spot, il manifesto pubblicitario possono veicolare, ma sono proprio l’esperienza al ristorante, la tavola, a dover trasferire un messaggio chiaro, comprensibile.

Altrettanto potremmo dire del rapporto tempo-salubrità del prodotto. Mi tornano alla mente, a questo punto, le considerazioni di una produttrice di birra artigianale che ha rimarcato come il tempo non sia responsabile solo di una dimensione qualitativa, ma anche della digeribilità di alcune bevande o alimenti.

Le fermentazioni, d’altronde, sono per definizione tempi di attesa che garantiscono un prodotto buono, in grado di conservarsi per il futuro, e lo rendono anche decisamente più digeribile. 

Ma tutti i produttori di birra artigianale, per esempio, rispettano i tempi giusti per ottenere un prodotto sano, buono, digeribile? O si avvalgono della definizione artigianale dimenticandosi la componente della lentezza?



Continua con la Seconda Parte!

 

a cura di

Giulia Zampieri

Giornalista, di origini padovane ma di radici mai definite, fa parte del team di sala&cucina sin dalle prime battute. Ama scrivere di territori e persone, oltre che di cucina e vini. Si dedica alle discipline digitali, al viaggio e collabora con alcune guide di settore.
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