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La cucina dell’attesa, fil rouge tra il NOMA e la Locanda del Gambero Rosso

02/12/2013

La cucina dell’attesa, fil rouge tra il NOMA e la Locanda del Gambero Rosso
Quanto è difficile fare un passo indietro? Quanto costa, alla nostra autostima conservativa e conservatrice, rendersi conto di essere ignoranti – dal verbo ignorare, ovvero non sapere, non conoscere per diretta esperienza (Grande Dizionario Italiano, Hoepli ed.) – per aver fondato un parere, o peggio un giudizio, su velleitarie informazioni? A ognuno la propria risposta.
Chi scrive deve ringraziare Moreno Balzoni, patron della Locanda del Gambero Rosso, culla del buono e dell’accoglienza ove rifugiarsi a vita per farsi coccolare quando ti ha lasciato il moroso, per darvi un’idea se ancora non ci siete stati, e le parole di un uomo che non ci si stanca mai di ascoltare e leggere, lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari. Entrambi questi signori, uno dal vivo e l’altro per iscritto, ci hanno insegnato quanto universi, più che nazioni, habitat e modelli culturali, diversi, si possano somigliare, possano essere collegati da un fil rouge invisibile se non si posseggono le chiavi di lettura corrette.

Il Noma di Copenaghen, al secondo posto della classifica dei migliori ristoranti del mondo (dopo esservi stato per tre anni al vertice), regno del giovane chef Renè Redzepi, classe 1977, umiltà e idee chiare da vendere sintetizzate nella quint’essenza dell’ Avanguardia alimentare oltre che gastronomica.

La Locanda del Gambero Rosso di San Piero in Bagno, paesotto in provincia di Forlì Cesena immerso nell’Alta Valle del Savio, casa della cuoca (guai a chiamarla chef) Giuliana Saragoni, ex insegnante di scuola materna, che nel 1992 decide di subentrare alla gestione dei genitori Cecco e Diva per fare dell’osteria che governavano dal 1951 il posto ideale per fare Archeologia alimentare oltre che gastronomica.

Muschi e licheni, erbe spontanee, bacche e funghi, formiche e gamberi anche vivi, le forme di vita naturale e vegetale dei boschi del Nord Europa per Renè; erbe di campo spontanee come il rosolaccio, la carlina e la cicerbita, funghi prugnoli e prataioli, castagne dei sentieri, per Giuliana, materie prime povere che il marito Moreno, ex geometra, va a cercare.

Su entrambi, una legge: quella della Natura, che fa parlare “gusti” così lontani in un’unica lingua, quella dell’Attesa. Attesa che le erbe crescano, e non sono mai le stesse e mai nello stesso periodo, perché il clima ahinoi sta cambiando rapidamente e repentinamente, e non abbiamo, se mai ci fossimo illusi di averlo, nemmeno più il controllo su ciò che si porta in tavola.

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Non siamo (ancora) stati al Noma, ma siamo stati al Gambero: Giuliana, Moreno, la figlia Michela e il genero Paolo ci hanno accompagnato in un percorso che ci ha mostrato ciò che non esiste, o meglio, che non esisteva più, ricette che stavano scomparendo anche nelle case private, perché tramandate oralmente da nonne e bisnonne o perché considerate povere. Giuliana questa intuizione l’ha avuta ben ventuno anni fa, andando contro ai genitori, un pochino anche al paese, e alla tendenza culinaria del tempo. Salto carpiato triplo, perché donna, perché autodidatta e perché persa nell’Appennino emiliano.
Come? Citiamo due risposte che abbiamo assaggiato, accompagnati dai vini che Paolo ci ha suggerito, tutti locali, come il Fieni 2007 di Filippo Manetti, viticoltore di Brisighella, e il Limbecca Sangiovese Superiore 2011 di Paolo Francesconi, viticoltore di Faenza: Basotti, pasta all’uovo della domenica sbollentata nel brodo sulle braci del camino fino ad assorbimento totale, che garantisce uno strato superficiale dorato e croccante, la cosa più semplice del mondo ma buonissima; il Raviggiolo, un formaggio che oggi non produce quasi più nessuno, dalla vita brevissima, di latte vaccino intero a cui si aggiunge caglio, dopo un’ora si deposita la cagliata su un letto di felci, e dopo un giorno è pronto. Dei tortelli sulla lastra vi abbiamo già parlato… provateli.

E il Noma, vi chiederete? Moreno ci ha spiegato come nasce e di cosa si nutre questa cucina, di ciò che la natura offre, contraddizioni comprese, e ci ha ricordato un testo di Massimo Montanari, il primo ad intuire un’assonanza di comuni intenti. Secondo lo studioso, il Noma – da Nordisk Mad, Cibo Nordico – ha esplicitato come si possa fare cucina anche con risorse alimentari ristrette, attivando un circolo virtuoso di collaborazione con pescatori e raccoglitori locali che riforniscono a Redzepi gli strumenti per dimostrare che tutto è commestibile se lo si sa riconoscere nell’ambiente circostante. Il dar vita a ciò che non esiste spontaneamente in natura cede il passo alla spontaneità, al ritorno a ciò che la natura offre, secondo i suoi tempi. L’Archeologia diventa Avanguardia, la Natura si fa Cultura, l’Insolito, da cui tendiamo ad allontanarci, ci invoglia invece a ragionare, su paradigmi diversi, la cucina mediterranea e quella nordica, fondate su passati lontani che qualcuno sta riportando alla luce.

E ciò che chi legge aveva trovato una provocazione in un’era in cui c’è bisogno di concretezza, si morde il labbro e si ricrede, a partire proprio da numeri concreti, elencati al recente BFCN: oggi nel mondo gran parte della produzione agricola viene utilizzata per il nutrimento degli animali e per la produzione di biocarburanti a discapito dell’agricoltura destinata al consumo umano, 1,3 miliardi di cibo viene sprecato mentre 868 milioni di persone soffrono la fame, e nel 2040 saremo circa in 9 miliardi sulla Terra. L’acqua basterà? Cosa mangeremo? Le formiche possono essere una risposta, considerando che esistono quasi 2 mila specie conosciute e catalogate di insetti commestibili. Le erbe spontanee, le radici, i fiori… c’è chi lo ha già pensato, nel 1992, in un piccolo paese romagnolo. E ci crede da allora.

 

Alessandra Locatelli
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