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La pasta è italiana, grazie alle mani dei pastai

09/05/2016

La pasta è italiana, grazie alle mani dei pastai
Sulla pasta l’Italia può vantare tre primati mondiali: il consumo pro-capite più alto al mondo, con 25 kg a testa ogni anno); la produzione a livello internazionale (5,8 milioni di tonnellate annui, pari ad 1/6 della produzione mondiale); l’esportazione (due milioni di tonnellate, per un controvalore di circa due miliardi di euro).
Con queste preminenze un po’ di competenza dovremmo pur averla, invece siamo ancora qui, ad un millennio esatto dai primi consumi di pasta (importata dagli arabi o dai cinesi, poco importa) in Italia, a discutere sul nulla, creando solo troppa confusione nel consumatore e nel professionista della ristorazione. Ẻ recente la polemica sul grano duro importato dall’estero che non fa bene alla salute e non è controllato, scatenata da un’associazione di categoria, e puntualmente smentita dai fatti.
Polemiche che non aiutano certo nella definizione di qualità che invece, sarebbe ora, non si misurasse sul concetto del piccolo è bello o sui sapori di un tempo.
Il piccolo, molto spesso, non è in grado di sfamare un mercato ampio, non è in grado di sostenere e finanziare attività di ricerca verso una sicurezza alimentare sempre più avvertita. Non si può basare una politica dei consumi solo sui sapori di un tempo; i sapori di un tempo molto spesso corrispondevano al gusto della fame e della mortalità per malnutrizione.
Pensiamo sia venuto il momento di smetterla di demonizzare l’industria alimentare italiana, a cui comunque tutti fanno riferimento – cuochi e consumatori – portando il livello del confronto sul piano della qualità, definendone i parametri sulla base di dati oggettivi legati al benessere delle persone e non alle dimensioni aziendali.

Le cose che bisogna sapere sulla pasta
La produzione di grano italiano è insufficiente per coprire il fabbisogno del consumo di pasta in Italia, figuriamoci per affrontare i mercati esteri dove la pasta italiana è riconosciuta come uno dei punti di forza del paniere. E all’estero lo sanno che il grano utilizzato non è tutto italiano, ma la testa si; siamo straordinari trasformatori, abbiamo sviluppato tecnologie all’avanguardia, siamo il paese che offre più sicurezza al mondo sotto il profilo dei controlli alimentari.
Questo non significa considerare il grano italiano di scarsa qualità, semplicemente viene usato tutto e con ottimi risultati.
Alla materia prima nazionale viene perciò aggiunto, mediamente, stando ai dati del Rapporto redatto da Aidepi:
- circa 1 milione di tonnellate di duro da macina merceologicamente tra il fino e il buono mercantile che si trova in Europa e in Usa-Canada (gradi 3-4 “or better”);
- circa 750.000 tonnellate di grani duri di altissima qualità che arrivano da Francia, Usa (Arizona in particolare) Canada e Australia (se l’annata lo consente anche da altre origini, come il Messico)
I grani duri esteri più pregiati possono arrivare a costare anche il 10%-15% in più di quelli nazionali e sono sottoposti, lungo tutto il percorso di filiera produttiva e di trasporto, a controlli molto rigorosi che, se non corrispondono ai parametri definiti, ne impongono il rientro al luogo d’origine.
L’autosufficienza non è mai stata prerogativa della produzione italiana. Nel 1917 il fabbisogno di grano dall’estero copriva il 90% e alcune varietà erano considerate talmente pregiate da essere evidenziate nelle prime pubblicità: a quel tempo era il grano Taganrog, che oggi è prodotto da alcuni pastifici italiani tra i più amati dai cuochi.

Le diete gluten free
Secondo una recente indagine Doxa tre italiani su dieci scelgono una dieta priva di glutine convinti che sia un beneficio per la salute. In realtà rinunciare all’apporto di glutine, a parte ovviamente i celiaci, è debilitante per l’organismo perché vengono negate sostanze fondamentali al suo mantenimento in buona salute. Qualche tempo fa uno studioso molto rispettato mi confidò che stava scrivendo un libro sul potere del cibo, preannunciandomi che nel giro di qualche anno sarebbe scomparso il colesterolo, semplicemente perché stavano scadendo i brevetti farmaceutici e si sarebbe imposta la psicosi di nuove malattie in funzione dell’imposizione di prodotti alimentari con un valore economico aggiunto altissimo, al netto di identici costi di produzione. Se pensiamo che il volume d’affari del senza glutine è di 101 milioni di euro e una crescita del +31% nell’ultimo anno, viene da riflettere, pur nel rispetto di chi è davvero vittima della malattia.

Luigi Franchi
luigifranchi@salaecucina.it
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