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La Pearà, quintessenza della veronesità

06/12/2021

La Pearà, quintessenza della veronesità

Accade sempre con i piatti più amati e radicati in certi luoghi: quasi alchemicamente i loro ingredienti si amalgamano con storia e fantasia, per creare quelli che sono, a tutti gli effetti, piccoli miti gastronomici. È questo il caso, a Verona, della Pearà, la tipica salsa della cucina locale, che ha trovato nell’accompagnamento ai bolliti, soprattutto di maiale e vitello, la sua più compiuta vocazione. Anzi, più che accompagnamento ne è diventata parte integrante, tanto da guadagnarsi un posto insieme al nome stesso: bollito misto con Pearà.

Del resto, se altre salse tipiche, utilizzate per dare un quid in più ai bolliti, come mostarda, purè, cren o salsa verde, compaiono in più cucine regionali, la Pearà - il suo nome in dialetto significa “pepata” e, in effetti, senza pepe non c’è Pearà - è esclusivamente veronese e potremmo definirla la controparte salata del pandoro, con la differenza che mentre il pandoro è assurto a vasta notorietà, sua Maestà la Pearà, come è definita nel menù del Ristorante 12 Apostoli, a due passi da Piazza delle Erbe, fuori Verona suscita ancora qualche sguardo interrogativo.

Un’origine longobarda? La leggenda della Pearà
Per conoscerla meglio, partiamo dalla sua origine. Narra la leggenda, che Alboino, re dei Longobardi, dopo aver preso in moglie Rosmunda, avrebbe ucciso in battaglia il padre di lei Cunimondo, re dei Gepidi. E, come (barbara) usanza dettava, durante il banchetto della vittoria avrebbe costretto la moglie a bere dal cranio del padre. Affranta, la donna avrebbe deciso di lasciarsi morire di fame, ma il cuoco di corte, intenerito, pensò bene di rimetterla in sesto con una buona zuppa, calda e corroborante, preparata con brodo e pane secco, l’aggiunta di olio e midollo di bue per renderla più nutriente e di un’abbondante macinata di pepe per rinfrancare l’animo della regina. Era nata la Pearà, tanto efficace da rendere Rosmunda in grado di vendicare la morte del genitore.

La Pearà, quintessenza della veronesità

La sua storia (forse) più probabile
Probabilmente la storia della Pearà è molto più prosaica: sarebbe, come del resto molti grandi classici della gastronomia italiana, un piatto povero della cucina popolare e di recupero, preparato con scarti e avanzi. In questa versione dei fatti, però, resterebbe il punto interrogativo del pepe, all’epoca spezia molto costosa e quindi non in uso se non con estrema parsimonia nelle cucine popolari.

Una ricetta… “esplosiva”
Qualunque sia la genesi della Pearà, a essere certi sono i suoi ingredienti: pane raffermo, grattugiato e setacciato, midollo freschissimo di bue, brodo di manzo o gallina, abbondante pepe nero macinato e olio d’oliva. In quanto, poi, alla preparazione, l’ideale sarebbe utilizzare un tegame di terracotta, nel quale la salsa dovrebbe cuocere per un paio d’ore. E poi ci sono, ovviamente, le variazioni sul tema in base al gusto, con l’aggiunta, per esempio, di formaggio (assente nella ricetta originaria), Parmigiano o Monte Veronese, o le diverse proporzioni tra pane e brodo, in modo da renderla più o meno densa, più o meno morbida. In ogni caso, la Pearà è una ma le varianti diverse, anche a seconda della zona del veronese: persino per quanto riguarda i metodi di cottura. Secondo alcuni, per esempio, va dimenticata sul fuoco, mescolandola il meno possibile e senza grattare quella bella crosticina che si forma sul fondo. Un punto resta fermo. Essendo un tipico piatto invernale (nonostante un veronese doc potrebbe probabilmente gradirla pure in piena estate), la si serve rigorosamente ben calda, con bollito misto o anche da sola.

Il bollito con pearà, un classico della cucina veroneseIl bollito con pearà, un classico della cucina veronese

La Pearà, sposa del bollito
Insieme al bollito la Pearà è stata per numerosi anni la protagonista di una fiera a essi dedicata a Isola della Scala (Vr). Anche il bollito, del resto, nei secoli scorsi era un piatto di recupero, un modo di sfruttare i tagli poveri della carne (la testina, la lingua, la “gallina vecchia”…), mentre oggi è arricchito con tagli diversi, che garantiscono l’equilibrio tra grasso e magro, sapori delicati e decisi. Sempre, però, senza far confusione, per cortesia, tra lesso e bollito. La differenza, lo ricordiamo, la fa il metodo di cottura: nel bollito la carne viene messa in pentola quando l’acqua già bolle; nel lesso, invece, quando l’acqua è ancora fredda. Il risultato è che nel primo la carne mantiene buona parte dei suoi sapori e risulta più gustosa; nel secondo i succhi rilasciati nell’acqua vanno a sfavore del gusto della carne ma a favore di quello del brodo.

 

Mariangela Molinari


foto tratte dalla fiera del bollito: www.fieradelbollito.it

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