I mesi di settembre e ottobre sono stati, per la ristorazione, un momento di profonda riflessione su un settore che, meglio di tutti gli altri, ha segnato un +18% di ripresa durante l’estate. Un segno positivo che testimonia la volontà di tornare a condividere momenti conviviali.
In questi mesi ci sono stati il congresso di Identità Milano incentrato sul tema del lavoro, il primo incontro del Tavolo della gastronomia presso i ministeri dello Sviluppo Economico e delle Politiche Agricole, le grandi adunate del Food Marketing Festival a Rimini e di Ristoratore Top a Bologna, le fiere di settore, prima Cibus e poi Tuttofood e Host, la presentazione della Guida delle Osterie d’Italia di Slow Food che è stata un momento di seria analisi di come sta cambiando la percezione del cibo e della convivialità.
Sono occasioni importanti, tutte pur nella diversità di contenuti, che confermano come il cibo sia ormai una parte fondamentale della vita sociale delle persone ma anche che sono necessari dei correttivi a questo sistema.
A cominciare dai tempi di questo lavoro ancora così massacrante.
Carlo Petrini, una delle migliori menti del settore, ha detto una grande verità durante la presentazione della guida delle Osterie d’Italia: “È finita l’ora di ristoranti che non hanno orario!!”.
Per fare bene questo lavoro occorre far diventare il giusto tempo un segno distintivo della professionalità di un ristoratore. È necessario, fondamentale prendersi del tempo, per farsi conoscere sul territorio, diventarne testimoni veri, andando a casa dei produttori di vino e di materie prime, per studiare, stare con la famiglia e con gli amici. Per rendere davvero felici gli ospiti che vengono nei vostri ristoranti. Non si possono rendere felici le persone se si fanno orari ottocenteschi, se non si ha il tempo per vivere in prima persona la bellezza di questo lavoro.
Le cucine devono essere luoghi ospitali, non caserme. Le sale dei ristoranti devono ritrovare la dignità della professione di cameriere. Non è il termine che va cambiato, o forse si ma non è quello il problema principale.
Per tornare nelle sale a lavorare i giovani chiedono altro: una paga che abbia un senso, una dignità di lavoro e non pulire i vetri del locale a mezzanotte finito il servizio, essere riconosciuti per nome. Ieri sono andato in un ristorante e, per la prima volta in vita mia, il ragazzo che si occupava del nostro tavolo ha pronunciato questa frase: “Se avete bisogno di altre informazioni chiamatemi pure, il mio nome è Andrea”.
Quel ragazzo in quel ristorante ci sta bene! E ci sono ancora ragazzi disposti a svolgere questo mestiere se vengono trattati con rispetto, se vengono invitati a far parte di un progetto.
Questo ha evidenziato la pandemia, non il fatto che non si trovano persone, bensì che a queste persone bisogna rivolgersi in maniera diversa da come è stato fatto finora: riconoscendone l’identità e la professionalità.
Così come tutta la filiera del cibo può diventare un viatico per accrescere consapevolezza e cultura, a condizione che non si raccontino più le leggende di una ruralità in cui si vive bene. Si vive bene in qualsiasi luogo se ci sono servizi alle persone che funzionano, se la socialità non è passare ore davanti all’attesa di uno o più like sui social, se anche nei nostri delicatissimi borghi le case diventano sicure, solide e sane.
È giunto il momento di diventare un Paese moderno, all’altezza del nostro ruolo nel mondo. Proprio a partire dalla soluzione dei piccoli problemi.
Luigi Franchi
Nell'immagine di copertina la sala di Ratanà (MI)