Quando si ha qualcosa da dire, non c’è bisogno di alzare la voce. Ascoltando Niko Romito, chef dell’anno per Paolo Marchi e la brigata di Identità Golose 2012, raccontare la sua analisi sensoriale, mi torna alla mente una frase del Mazzini, “l’educazione è il pane dell’anima”. Concetti che in effetti si alternano e si sovrappongono nella teoria del patron del ristorante Casadonna, concorrendo a ordinare tutti gli elementi che guidano alla progettazione e alla percezione di un piatto come di un sapore, attraverso il riconoscimento del modus operandi dei nostri cinque, ma anche sei, sensi.
Lavagna alla mano, Niko Romito traccia la mappa delle nostre sensazioni a partire dalle prime componenti che, per automatismo, mettiamo in gioco di fronte ad una pietanza: in ordine, la vista, poi l’olfatto e infine il gusto. I primi due sono stimolati dall’esterno, ovvero dagli ingredienti utilizzati nella ricetta, mentre il sapore parte da dentro. La capacità di ognuno di considerare i sapori è veicolata dall’incrocio tra tratti ereditari e setting socio-culturale, così la percezione dell’acido e dell’amaro ha una base genetica e quella del dolce e del salato risente dell’abitudine. C’è filosofia oltre che fisiologia in queste parole, c’è la storia antropologica del genere umano letta in prospettiva, oltre il passato, oltre il mercato. E oltre la struttura: la consistenza e la tessitura conservano un livello di interpretazione che si sprigiona e si rende accessibile all’olfatto attraverso il tatto e l’udito, affondando una posata nella pietanza o spezzando il cibo con le mani. La temperatura è scienza, è chimica: più è elevata, maggiori sono le sostanze volatili.
“La cucina è un gioco di equilibri, in cui combiniamo gli elementi per vedere come reagiscono” spiega Niko Romito e, attraverso gli strabilianti video di Elisia Menduni, assistiamo al reale percorso della mappa, che conduce fino al cuore del prodotto e alla purezza assoluta del gesto emozionale. Immagini, parole, musica in crescendo: la cucina è nascita, è sorpresa. È il tortello di capocollo e prosciutto glassato all’orzo: la carne è cotta per dodici ore a 70°C, il prosciutto tagliato al coltello prima è immerso nell’acqua fredda, poi cotto e filtrato, lasciando la sua acqua a raffreddare nel sale; il tortello, fuori glassato con l’infuso d’orzo, spaccato con la forchetta rivela la doppia anima, calda del capocollo e fredda del disco di acqua di prosciutto gelata. Dolcezza, sapidità, amaro, calore controllato. Eleganza e semplicità, le stesse che ritroviamo nella meringa con caramello e lampone: “Il cuoco e il pasticcere hanno idee diverse di dolce: al ristorante, dopo un pasto, si cerca la freschezza e la leggerezza, un dolce non dolce che non invada il piatto”, e la meringa cucinata con tuorlo, acqua e zucchero bruciato che copre la cialda ghiacciata, ottenuta da centrifugato di lampone e acqua distillata abbattuti in parti uguali, è l’esempio ideale di una chiusura che non mette la parola fine, ma tende all’infinito.
Alessandra Locatelli