Per poter soddisfare il consumo di pasta degli italiani non basta la produzione di grano derivante esclusivamente dalle campagne del paese. Questa è la prima considerazione.
La seconda riguarda i controlli su tutte le materie prime importate, che devono rispettare i requisiti igienico-sanitari richiesti per i prodotti nazionali. E l’Italia, una volta tanto, vanta il primato delle leggi e dei controlli più rigorosi a livello mondiale in materia di alimenti.
Bastano queste due considerazioni per dimostrare quanto populista e strumentale sia la battaglia del grano lanciata nei giorni scorsi da Coldiretti in tutta Italia.
Lasciar intendere che la pasta fatta con il grano importato fa male alla salute, come fa l’associazione agricola in questione, è profondamente sbagliato perché quei grani importati, a seguito di una catena di controlli, ripetiamo, molto rigorosa, sono indispensabili per far fronte al fabbisogno dei consumi, diversamente la produzione subirebbe un calo di circa il 60/70% con le relative immaginabili conseguenze. Nessuno vuole mettere in discussione la qualità dei grani italiani e il ritorno dei grani antichi (forse non sufficientemente supportati dalla ricerca); ci sono significativi episodi di scelte meritevoli, come il patto di filiera sottoscritto da Grano Armando con oltre 1.000 agricoltori.
Ben vengano, ma non sono sufficienti al fabbisogno. E, come afferma
Aidepi, l’associazione che raggruppa i principali pastifici, “il grano estero non viene comprato per risparmiare: spesso costa anche di più. E il problema della contaminazione del grano dovuta alle micotossine riguarda tutte le materie prime, sia nazionali che importate nella stessa misura. Se dai controlli delle aziende la materia prima non risulta essere a norma, non viene utilizzata per la pastificazione”.
Crediamo sia ora di smetterla con la favola del piccolo è bello. Il piccolo non è in grado di sfamare un mercato ampio, non è in grado di sostenere e finanziare attività di ricerca verso una sicurezza alimentare sempre più avvertita. Non si può basare una politica dei consumi solo sui sapori di un tempo; i sapori di un tempo molto spesso corrispondevano al gusto della fame e della mortalità per malnutrizione.
Pensiamo sia venuto il momento di smetterla di demonizzare l’industria alimentare italiana, a cui comunque tutti fanno riferimento – cuochi e consumatori – portando il livello del confronto sul piano della qualità, definendone i parametri sulla base di dati oggettivi legati al benessere delle persone e non alle dimensioni aziendali.
Tutto il resto, a cominciare dalle battaglie del grano, ha un sapore retrò di tempi che nessuno vorrebbe più rivivere.
Luigi Franchi
luigifranchi@salaecucina.it