Un italiano su due, nell’ultimo anno, ha creduto a una notizia letta su Internet che si è poi rivelata falsa. Non solo: tra questi, il 37% ha condiviso la notizia nella sua rete di riferimento. Questi i primi risultati della ricerca condotta dal Centro di ricerca dell’Università Cattolica Engage Minds Hub nell’ambito del progetto Craft, presentato a gennaio nella sede dell’Università a Cremona.
Un dato preoccupante per due ordini di motivi: il primo è l’eccesso di informazione che si trova in rete e che non viene quasi mai analizzata correttamente; il secondo è la scarsa predisposizione all’approfondimento che ormai coinvolge ogni categoria demografica.
Dal nostro punto di vista è indispensabile, anche se a volte appare una battaglia di donchisciottesca memoria, continuare a fare informazione come la stiamo facendo con i nostri mezzi; e cioè non inseguire gli scoop a tutti i costi nel mondo del food e della ristorazione; pubblicare notizie che riteniamo possano interessare i professionisti del settore e non scrivere del taglio di capelli o dell’ennesimo tatuaggio del cuoco di moda; raccontare la ristorazione in tutti gli aspetti della filiera; ed essere utili a chi ci legge.
È una strategia editoriale che, in questi anni, ci ha permesso di venire accreditati come una redazione seria e ci è valsa la piacevole sorpresa, quest’anno, di essere scelti dall’associazione Le Soste come rivista partner, un risultato che ci riempie d’orgoglio e ci motiva ad andare avanti così.
Ma torniamo al dato preoccupante della ricerca presentata dall’Università Cattolica che fa il paio con un’altra indagine, del novembre scorso, legata in specifico alle fake-news del mondo del cibo. Anche in quel caso i dati erano decisamente gravi; dalla ricerca di Klaus Davi & Co. condotta con l'appoggio della Commissione Agricoltura alla Camera, emerge che, da marzo a settembre 2020, si è rilevato un aumento di circa il 33% della mole di fake news circolanti sul web riguardo il cibo italiano. Le fake spaziano dal formaggio Asiago DOP che “non è genuino come quello dei nostri nonni contenendo ormoni, agrofarmaci e diossine” alla notizia che “mangiare Grana Padano può essere rischioso poiché potrebbe essere contaminato da Covid-19”.
Queste notizie trovano facile presa perché si vive in un clima di spaventosa incertezza ma anche perché non esistono, in Italia, precisi programmi di educazione alimentare, siano essi programmi televisivi che, a maggior ragione, didattici. Neppure negli istituti alberghieri, dove transitano ogni anno decine di migliaia di ragazzi orientati ad una professione dove il cibo è la componente principale, le ore di educazione alimentare, quando ci sono, rappresentano un’inezia. E di questo siamo buoni testimoni visto che pubblichiamo regolarmente, forse unici tra i tanti del settore, articoli sugli istituti alberghieri. Non diamo la colpa ai dirigenti o ai docenti che, in tanti casi, ci mettono pure del loro, in termini di ore e di soldi, per aiutare i ragazzi, bensì di un sistema complessivo che, pur parlando di cibo fino alla nausea (televisioni, riviste, eventi e soprattutto social), non tiene conto delle informazioni essenziali per far crescere correttamente una sensibilità, un’educazione e una conoscenza. Il risultato? I bambini delle elementari che credono che il gelato nasca sui camion!