Perché ti sei posto, da subito, questa condizione?
“Perché ho avuto la possibilità di vivere, nel primo grande ristorante in cui ho lavorato nel periodo limbico, il passaggio dall’amatorialità della cucina alla crescita professionale, pur con lacune importanti di cui avevo consapevolezza, che mi ha spinto a fare il passo successivo. Se vuoi con un po’ di incoscienza, contrariamente a quelle che sono le mie abitudini, ma solo così ho potuto fare quella scelta. Con la volontà di essere autore e imprenditore di me stesso. Solo dopo, solo con l’esperienza ho capito che riesci ad avere la libertà totale di gestire te stesso e chi lavora per te. Perché, quando sei neofita, non c’è nulla che tu possa fare con una totale libertà di pensiero e ti trovi costretto ad una serie di cliché generali da cui esci nel momento in cui hai formato una personalità”.
Quando hai deciso hai probabilmente cominciato ad immaginare il tuo locale, poi hai cominciato a pensare a come scegliere le persone, a quale tipo di cucina: come è avvenuto questo percorso?
“Non certo per casualità, ma con un pizzico di incoscienza si. Lo dico sempre ai miei ragazzi: le luci di questa ribalta ti adombrano e, a volte ti impediscono di vedere i veri aspetti di questo mestiere. Per cui incoscienza, un solo pizzico; il resto va costruito a piccoli tasselli che devono essere consolidati, senza bruciare le tappe”.
Dando per scontato che il successo di un locale non lo fanno solo le guide ma i clienti, come ti rapporti con loro. Come riesci a capirne i bisogni, le aspettative?
“È molto complesso capire un cliente. In sala ho la fortuna di avere un direttore che ha una grande sensibilità e riesce a percepire fin dall’inizio chi ha di fronte, a cogliere quei piccoli dettagli che lo portano a suggerire, ad esempio, quelle piccole variazioni (ad esempio nel menu degustazione) che riescano a soddisfare le aspettative. Non è comunque un facile esercizio”.