Fino a pochi anni fa le attività gestite da stranieri costituivano delle rarità, creavano poco scalpore o erano da leggere nella totale indifferenza. Ora che la dimensione del fenomeno si sta presentando tutt’altro che marginale, diversi quesiti ce li dovremmo porre. A cominciare dal tipo di sviluppo che potrà avere la ristorazione nel nostro Paese, con gli effetti di una presenza sempre più massiccia di stranieri nella gestione dei locali pubblici.
Nelle grandi città, con Milano in testa, il 23% dei bar è gestito da cinesi che provengono dalle province a sud di Shangai. Molti di loro fanno di cognome Hu, tanto diffuso che nella città meneghina è diventato incredibilmente il secondo più scritto sui campanelli. La progressione percentuale con cui, in questi ultimi cinque anni, si è sviluppata la titolarità straniera nelle gestioni di bar e ristoranti ha dell’incredibile: oltre il 300%. Pizzerie e panetterie, giusto per contestualizzare, sono in mano agli egiziani e i ristoranti, altra attività di frontiera, sono spartiti con il resto delle altre comunità straniere e con numeri impressionanti.
Le implicazioni di una forte presenza straniera nelle gestioni dei pubblici esercizi, oltre che sociali, sono di tipo commerciale e culturale. Molti di questi locali si distinguono da quelli gestiti da italiani non solo per il personale, ma per l’immagine “low profile” che trasmettono in genere. Non vuole essere una osservazione semplicistica e di disprezzo, quanto una pura constatazione oggettiva e neutrale. Gli arredi interni sono semplici e poco curati e l’offerta merceologica è spesso scarna e mal segmentata. La proposta commerciale sta coprendo, diciamolo senza giri di parole, la fascia bassa dell’offerta, proponendosi con prezzi di vendita verso cui la nostra imprenditoria difficilmente riesce a competere per i motivi che tutti sappiamo.
Ma sarà sempre così? E inoltre: questa concorrenza straniera sta sentendo anche lei la crisi e il calo dei consumi, (per cui sarebbe interessante capire con quali strategie sta affrontando la situazione)? Ci sono esempi recenti che ci devono fare riflettere perché possono costituire segnali di un minaccioso cambiamento del fenomeno cinese?
Da quanto ne sappiamo e da quanto oggettivamente notiamo andando per locali e parlando con i tanti operatori del settore, questa imprenditoria cinese ci viene descritta tutt’altro che sprovveduta. E’ vero che comprano le attività con i soldi prestati dalle famiglie, ovviando ai prestiti bancari che invece i nostri connazionali pagano alacremente, quando riescono ad ottenerli; è vero che pagano un cameriere 400 euro al mese contro i 1300 dati a un nostro connazionale; è vero inoltre che sempre più prodotti non sono italiani ma arrivano direttamente dalla Cina, difficilmente tracciabili e garantiti. Ma c’è dell’altro. Questi imprenditori non si muovono soli, hanno una rete che sta dietro loro e li supporta prima delle aperture e dopo nella gestione. Sappiamo di vere organizzazioni che lavorano dietro le quinte per garantire l’apertura di locali facendo arrivare, dai pavimenti agli arredi, direttamente dalla Cina tutto il necessario per allestire un ristorante. Muratori, falegnami, idraulici e tecnici arrivano insieme ai materiali “made in China” apparentemente uguali ai nostri, organizzati in squadre che nel giro di due settimane disfano e ricostruiscono un locale intero, pronto per essere inaugurato. Abbiamo visto e provato locali che di cinese dal punto di vista estetico e del menu non avevano nulla e non lo avremmo mai capito se non ce lo avessero detto. Di orientale proprio nulla se non una spiccata organizzazione para-militare e una precisa volontà a non fermarsi a fare cucina cinese, o giapponese, ma di iniziare a proporre piatti italiani e cucina italiana; spaventosamente pronti ad imparare velocemente, cambiando strategia e modo di presentarsi con un modello ristorativo simile al nostro.
Se riusciranno, oltre alla moda, a copiare anche la nostra cucina non lo sappiamo, ma di sicuro ci stanno provando e la minaccia non è da sottovalutare.
Roberto Martinelli