Ho letto un libro molto interessante quest’estate: L’osteria nuova, una storia italiana del XX secolo, di Alberto Capatti, pubblicato nel 2000 da Slow Food Editore. Diciannove anni fa, un niente rispetto alla lunga storia delle osterie italiane, ma in questi anni del nuovo secolo si è determinato un ulteriore passo avanti per quelle che si richiamano a questo nome che, nel tempo ha significato un incontro di popolo, di persone che, un tempo, erano escluse dai giochi di società; operai, senza lavoro, artigiani. E che oggi sono frequentate e riconosciute come luoghi dove mangiare e bere bene, a un prezzo accessibile e in un ambiente dove trascorrere alcune ore di piacere senza sentirsi sotto esame. Grande potenza dei nomi. Anche quando non compaiono quasi più nelle insegne, sostituiti da trattoria o da ristorante al posto di osteria, ma che hanno il potere di darsi un’identificazione in modo naturale. Come se si sentissero i rumori e i profumi piacevoli del luogo prima ancora di entrarci.
Un grande merito di tutta questa resistenza va alla Guida delle Osterie d’Italia che, ogni anno, offre un puntuale aggiornamento di questi indirizzi dalla lunga vita.
In questi luoghi, infatti, che si sono rinnovati, passando dalle bettole fumose e senza luce naturale a locali tenuti puliti, ordinati e lucenti da famiglie indefesse, si racconta ancora oggi un’Italia capace di dare il meglio di sé in fatto di ospitalità e buona cucina. Sono locali che non pagano, principalmente per la gestione familiare che li caratterizza, lo scotto di costi troppo elevati in fatto di gestione e di materie prime, pur eccellenti.
Qui si ritrova ancora e sempre il sapore di ciò che si mangia, e si fa solitamente il pieno di una cultura gastronomica vera. Quello, cioè, per cui il nostro Paese è così amato all’estero e attira così tante persone a visitarlo.
Sono locali che, in fatto di turismo enogastronomico, spostano persone in luoghi dove da vedere forse c’è ben poco rispetto alle grandi mete, ma riescono a portare turismo, soldi e confronto tra culture diverse anche in mezzo alle campagne, nell’Appennino abbandonato, in paesini dove rimangono punto di riferimento per la loro funzione sociale.
Non è eroismo, è consapevolezza di fare un mestiere importante se fatto lì, in quel preciso luogo.
Questo è il valore, oggi, dell’osteria nuova. Un valore che, per fortuna, è riconosciuto dal pubblico, che riempie questi locali nel weekend ma anche da un turismo consapevole che garantisce reddito anche nei giorni e nelle stagioni meno attrattive.
La cucina, in questi posti, è fatta di ricette classiche, semplicemente adattate ai bisogni alimentari contemporanei; ricette che, per una volta, non scompaiono con chi le ha realizzate per una vita, ma che sono diventate patrimonio condiviso. Realizzate da giovani osti, in molti casi, che a queste abbinano vini con competenza, con un legame territoriale o con un gusto semplice e complesso allo stesso tempo, ma mai con ostentazione e soprattutto senza giudicare.
Oggi il giudicare è il male di una certa ristorazione che non tiene più conto della soddisfazione del cliente ma quasi esclusivamente del proprio ego. Nelle trattorie, fortunatamente, non è così.