Massimo Bottura è il miglior cuoco al mondo! Lo ha stabilito l’Accademia Internazionale della Cucina di Parigi, che conta una commissione composta da venti tra i migliori cuochi del mondo, alcuni dei quali italiani. Prima di lui, tra gli italiani, l’ultimo a ricevere il Grand Prix de l’Art de la Cuisine fu Alfonso Iaccarino, nel 2000. Ci sono voluti dieci anni, gli stessi in cui l’alta cucina italiana è profondamente cambiata, ritornando alla ribalta internazionale.
La notizia è arrivata a Massimo Bottura, patron dell’Osteria Francescana di Modena, nei giorni di Identità Golose, il congresso ideato da Paolo Marchi, con questa motivazione, ben raccontata ai componenti della giuria da Giovanni Ballarini, presidente dell’Accademia Italiana della Cucina: la sua cucina una sintesi perfetta tra “rispetto della tradizione, proiezione verso il futuro e ispirazione artistica”.
È l’ultimo di una lunghissima serie di attestati, premi e riconoscimenti che lo chef modenese condivide con tutto il suo staff. L’intervista è avvenuta pochi giorni dopo la notizia e, confesso, l’emozione, pur conoscendo Massimo Bottura da tempo, era grande.
Come ci si sente ad essere il miglior cuoco al mondo, come ci si sente ad essere con la testa ad un passo dal cielo, ma con i piedi ben piantati a terra?
“I piedi piantati per terra perché significa umiltà e concentrazione, il rapporto con le persone. Gli emiliani sanno bene cosa vuol dire. In cielo vola la testa che ti permette di sognare, di creare. Galileo Galilei, uomo di libertà, diceva che non si potrà mai ‘vietare agli uomini di guardar verso il cielo’. Io, fino all’annuncio ufficiale, non sapevo niente del premio che mi è stato assegnato. Ma quando ne ho letto le motivazioni mi ci sono pienamente riconosciuto: tradizione, scienza e arte… Rappresentano perfettamente la mia idea che si è formata in questi anni, senza dimenticare mai chi sono e da dove vengo, la mia terra, le persone che ho attorno, con cui sono cresciuto. Ma guardo a loro e al territorio senza spirito di nostalgia, bensì proiettandoli al futuro. Lo stesso faccio con la mia cucina, attraverso le materie prime, tramite una tecnica umile per esaltarne i valori e i sapori”.
Fin qui la tradizione, che Massimo racconta, creandone il legame con la cultura e l’arte, attraverso la metafora e la storia dell’anguilla; il prodotto più redditizio degli Estensi che, persa Ferrara, dovettero risalire (proprio come le anguille) il Po per arrivare a prendere possesso del Ducato di Modena, alla fine del Cinquecento. Erano gli anni di Cesare d’Este, colui che fece edificare il Palazzo Ducale, simbolo di arte e cultura.
“Fu quel viaggio degli Estensi, tra terre di pescatori e contadini che condizionò la storia di queste terre. Quella stessa che io voglio rappresentare anche nella mia cucina, attraverso le materie prime, tramite una tecnica umile per esaltarne i valori e i sapori”.
Il legame con la terra, con le storie delle persone Massimo lo spiega benissimo nel suo ultimo film Il ritorno, e, durante la proiezione, mi tornavano alla mente alcune affermazioni di Kandiskji sull’arte e il paesaggio: “Nel mio viaggio nella Vologda vidi per la prima volta l’arte popolare; viaggiai dapprima in ferrovia con la sensazione di trovarmi su un altro pianeta, poi alcuni giorni in battello e infine su una carrozza attraverso le foreste infinite, fra colline variopinte, attraverso acquitrini e deserti sabbiosi, viaggiavo solo e potevo sprofondarmi nell’ambiente e in me stesso senza alcun impedimento.“ scriveva l’artista, di cui quest’anno ricade il centenario di fondazione della sua corrente artistica Il cavaliere azzurro.
“L’arte contemporanea non è capita, come non lo era il mio croccantino di foie gras. – commenta Massimo - Nel 2000 lo buttavo via, nessuno lo voleva. L’unica che apprezzava era Fiammetta Fadda, che mi mise a disposizione quattro pagine di Grand Gourmet per scrivere e presentare ciò che volevo. Erano gli anni in cui pensavo di chiudere il ristorante. Avevo una proposta interessante a Londra, ma fu mia moglie Lara a farmi desistere. A farmi riflettere sul senso della sconfitta e del successo. A Londra il successo lo avrei avuto, ma non con il sapore che mi avrebbe dato qui.”
Per fortuna, possiamo affermare. L’Italia non avrebbe avuto questo straordinario riconoscimento, e sappiamo quando ci sia bisogno di un’immagine positiva del Paese nel panorama internazionale.
Luigi Franchi
Massimo Bottura è il miglior cuoco al mondo! Lo ha stabilito l’Accademia Internazionale della Cucina di Parigi, che conta una commissione composta da venti tra i migliori cuochi del mondo, alcuni dei quali italiani. Prima di lui, tra gli italiani, l’ultimo a ricevere il Grand Prix de l’Art de la Cuisine fu Alfonso Iaccarino, nel 2000. Ci sono voluti dieci anni, gli stessi in cui l’alta cucina italiana è profondamente cambiata, ritornando alla ribalta internazionale. La notizia è arrivata a Massimo Bottura, patron dell’Osteria Francescana di Modena, nei giorni di Identità Golose, il congresso ideato da Paolo Marchi, con questa motivazione, ben raccontata ai componenti della giuria da Giovanni Ballarini, presidente dell’Accademia Italiana della Cucina: la sua cucina una sintesi perfetta tra “rispetto della tradizione, proiezione verso il futuro e ispirazione artistica”. È l’ultimo di una lunghissima serie di attestati, premi e riconoscimenti che lo chef modenese condivide con tutto il suo staff. L’intervista è avvenuta pochi giorni dopo la notizia e, confesso, l’emozione, pur conoscendo Massimo Bottura da tempo, era grande. Come ci si sente ad essere il miglior cuoco al mondo, come ci si sente ad essere con la testa ad un passo dal cielo, ma con i piedi ben piantati a terra?“I piedi piantati per terra perché significa umiltà e concentrazione, il rapporto con le persone. Gli emiliani sanno bene cosa vuol dire. In cielo vola la testa che ti permette di sognare, di creare. Galileo Galilei, uomo di libertà, diceva che non si potrà mai ‘vietare agli uomini di guardar verso il cielo’. Io, fino all’annuncio ufficiale, non sapevo niente del premio che mi è stato assegnato. Ma quando ne ho letto le motivazioni mi ci sono pienamente riconosciuto: tradizione, scienza e arte… Rappresentano perfettamente la mia idea che si è formata in questi anni, senza dimenticare mai chi sono e da dove vengo, la mia terra, le persone che ho attorno, con cui sono cresciuto. Ma guardo a loro e al territorio senza spirito di nostalgia, bensì proiettandoli al futuro. Lo stesso faccio con la mia cucina, attraverso le materie prime, tramite una tecnica umile per esaltarne i valori e i sapori”.Fin qui la tradizione, che Massimo racconta, creandone il legame con la cultura e l’arte, attraverso la metafora e la storia dell’anguilla; il prodotto più redditizio degli Estensi che, persa Ferrara, dovettero risalire (proprio come le anguille) il Po per arrivare a prendere possesso del Ducato di Modena, alla fine del Cinquecento. Erano gli anni di Cesare d’Este, colui che fece edificare il Palazzo Ducale, simbolo di arte e cultura.“Fu quel viaggio degli Estensi, tra terre di pescatori e contadini che condizionò la storia di queste terre. Quella stessa che io voglio rappresentare anche nella mia cucina, attraverso le materie prime, tramite una tecnica umile per esaltarne i valori e i sapori”.Il legame con la terra, con le storie delle persone Massimo lo spiega benissimo nel suo ultimo film Il ritorno, e, durante la proiezione, mi tornavano alla mente alcune affermazioni di Kandiskji sull’arte e il paesaggio: “Nel mio viaggio nella Vologda vidi per la prima volta l’arte popolare; viaggiai dapprima in ferrovia con la sensazione di trovarmi su un altro pianeta, poi alcuni giorni in battello e infine su una carrozza attraverso le foreste infinite, fra colline variopinte, attraverso acquitrini e deserti sabbiosi, viaggiavo solo e potevo sprofondarmi nell’ambiente e in me stesso senza alcun impedimento.“ scriveva l’artista, di cui quest’anno ricade il centenario di fondazione della sua corrente artistica Il cavaliere azzurro.
“L’arte contemporanea non è capita, come non lo era il mio croccantino di foie gras. – commenta Massimo - Nel 2000 lo buttavo via, nessuno lo voleva. L’unica che apprezzava era Fiammetta Fadda, che mi mise a disposizione quattro pagine di Grand Gourmet per scrivere e presentare ciò che volevo. Erano gli anni in cui pensavo di chiudere il ristorante. Avevo una proposta interessante a Londra, ma fu mia moglie Lara a farmi desistere. A farmi riflettere sul senso della sconfitta e del successo. A Londra il successo lo avrei avuto, ma non con il sapore che mi avrebbe dato qui.”Per fortuna, possiamo affermare. L’Italia non avrebbe avuto questo straordinario riconoscimento, e sappiamo quando ci sia bisogno di un’immagine positiva del Paese nel panorama internazionale.
Luigi Franchi