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Masterchef: ovvero di cuochi, dischi volanti e social network

21/12/2013

Masterchef: ovvero di cuochi, dischi volanti e social network
Sarà un’edizione vivace. Di quelle che coinvolgono il pubblico e non si dimenticano. Questo è certo, ma non è ancora certo il motivo per il quale sarà ricordata, oltre alle polemiche.

Che poi sono le stesse che si ripetono all’avvio di ogni talent o reality show giunto alla terza o quarta stagione. È stato così per il Grande Fratello, per X Factor, per gli Amici di Maria (De Filippi).

Ma Masterchef è fantastico, è un perfetto esempio di prodotto costruito e realizzato a regola d’arte, non per piacere, che non è importante, ma per avere largo pubblico, per lo share.

Chapeau agli autori. A un certo punto sembra che l’elemento “spettacolo a tutti costi” debba prevalere sul “talento” che, almeno per coerenza col format del programma, dovrebbe essere al centro dell’attenzione. Ma è solo tattica.

E così, via con la passerella di personaggi bizzarri e improbabili in situazioni sconcertanti. Gli ingredienti ci sono tutti per un bel pasticcio di déjà vu in crosta piccante.

Dal barista con l’orsacchiotto al prestigiatore (il suo piatto è volato ma il numero non è riuscito); dalla figlia in competizione con la madre (ma che strano) alla bellona che tenta la carta degli occhi dolci al giudice.

Gli aspiranti concorrenti si susseguono in un alternarsi di lacrime, che non possono mancare, De Filippi docet; di gag (ci mancava la lezione di sex appeal del concorrente latin lover con girls al seguito) e lanci del piatto del discobolo Bastianich (il pubblico se lo aspetta, non vogliamo deluderlo).

Tra doppi sensi fin troppo scontati (la voglia di tortellino sarà ricordata per un bel po’) e disquisizioni cinofile si susseguono i piatti e i tre giudici investono i primi concorrenti dell’ambito grembiule.

Ma si diceva di polemiche: fate un giro su Facebook, alla pagina ufficiale di Masterchef Italia. Ce n’è per tutti…di veleno. Le critiche più severe riguardano la varietà multietnica dei partecipanti espresse nel modo più banale possibile: la cucina italiana è degli italiani, cosa c’entrano piatti africani o orientali? Poi si passa all’insofferenza per i casi umani (che piagnone…), all’invidia smaccata (se era cessa non la faceva passare…) e, finalmente, alla critica dei piatti proposti che, diciamolo, in alcuni casi non erano niente male.

Speriamo vengano valorizzati; ci piacerebbe che in tutto questo bailamme la cucina, quella vera che i nostri giudici impersonano così egregiamente nel mondo, potesse emergere e il pubblico, e i concorrenti, capissero che essere chef non vuol dire (solo) luci della ribalta ma sacrificio, duro lavoro, umiltà.

Marina Caccialanza

 

 
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