La tua ami definirla cucina di campagna…
“Non potrebbe essere altrimenti. Quando ho fatto la scelta di venire a Trebbo di Reno ho girato molto nella campagna circostante, per capire la natura del territorio. E campagna, cucina, territorio è diventata un po’ la cifra stilistica delle proposte e delle tecniche. Voglio fare un sorbetto? Dovrà essere di mela o di pera, di un prodotto riconducibile alla zona. Facciamo campagna con tecnica e professionalità”.
In quanti siete, tra tutti i locali? Fai ruotare il personale?
“In tutto siamo circa una trentina. L’età media, tolto il sottoscritto e i soci, è intorno ai 27 anni. Far ruotare il personale potrebbe essere una buona soluzione ma, in certi casi, come la sala del Massimiliano Poggi, diventa difficile. E credo che sia anche giusto. Sempre per il motivo di cui sopra: voglio far accettare la mia brigata, sono bravi e lo meritano”.
Cosa significa amare un lavoro così usurante come fare il cuoco?
“Ti faccio un piccolo esempio: mio nonno aveva una fabbrichetta che confezionava mangime per gli uccellini. Adorava sodo, lavorava e basta. Ma alla domenica, alle prime luci dell’alba, lui era già in cucina, a preparare il pranzo della domenica per tutti. Quella era la componente che dà il significato alle passioni. Ho preso da lui? Non lo so. So di certo che, da ragazzino, ero un po’ ribelle. Alberghiero a Rimini, abbandonato a 15 anni per andare a lavorare, per scelta. È vero, questo è un lavoro usurante, spesso e volentieri si vede solo la parte bella: cucine ipertecnologiche, impiattamenti perfetti, divise linde, televisioni e giornali, ma la gestione è anche pulire tutti i giorni, fare la spesa, stare ore ai fornelli. Ed è lì che chiunque si deve fare una domanda: mi piace davvero? Se la risposta è si, allora non c’è più niente che ti possa fermare”.
Abitualmente, in queste interviste, non parliamo di ricette ma la tua insalata russa è un quadro d’autore. Per arrivare lì, a parte gli ingredienti, c’è bisogno di conoscenza dell’estetica?
“Tu sai che qui ci diamo un connotato di cucina divertente. Come siamo arrivati lì? Un giorno un amico mi regala caviale, lo faccio sott’olio, e il mio socio mi propone di abbinarlo alla vodka. L’illuminazione è stata creare un piatto: panna acida, caviale e vodka. È insalata russa! In realtà è un piatto che vuole dimostrare una cosa: la mia è una cucina semplice, con ingredienti per la maggior parte provenienti dalla campagna, mentre su quel piatto si è costretti a cercare la tecnica. Ecco, volevo solo dimostrare che ce la possiamo fare, anche con le nuove tecniche”.
Hai avuto un modello, uno chef, di riferimento?
“Credo che l’unico chef che, almeno per quelli fino alla mia generazione, sia stato un punto di riferimento porta il nome di Gualtiero Marchesi. Lui ha sdoganato la professione del cuoco. In quegli anni non dicevi ‘faccio il cuoco’. Erano gli anni di crescita, con Raffaele Liuzzi, Luigi Sartini, Stefano Ciotti, Riccardo Agostini. Era un periodo molto duro, il cuoco ventenne veniva scelto per risparmiare, non per investire su di lui, ma a noi piaceva lavorare. Amavamo il nostro lavoro e Marchesi gli ha conferito dignità”.