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Michil Costa: un modello gestionale dell'ospitalità che fa leva sul bene comune

07/01/2020

Michil Costa: un modello gestionale dell'ospitalità che fa leva sul bene comune

Idee di turismo umano e sostenibile, il bene comune come principio fondante della loro professione, le tre case – Hotel Perla e Berghotel Ladinia a Corvara (nel cuore delle Dolomiti) e il Posta Marcucci a Bagno Vignoni (nelle crete senesi) - in cui applicano questi concetti sono gli argomenti di questa intervista con Michil Costa, presidente del gruppo e della Costa Family Foundation Onlus, che racconta una visione tangibile e concreta di quello che può fare, ognuno di noi, per migliorare il mondo in cui viviamo.
La famiglia Costa ha nel cuore l’ospitalità, da oltre 60 anni, da quando, nel 1956, il padre di Michil, Ernesto, aprì la casa dell’Hotel Perla in una Val Badia che cominciava ad attirare turismo invernale. Nel 1975 l’Hotel Perla venne completamente distrutto da un incendio; una vicenda dolorosissima ma Ernesto, con l’aiuto di tutta la famiglia e della comunità, seppe reagire e ricominciare dal niente. Oggi quella forza di volontà si svela nelle tre case, in Val Badia e in Toscana, dove lavorano 180 persone e in una fondazione che, in 12 anni, ha contribuito a finanziare, per oltre 800.000 euro, progetti di sviluppo in diverse parti del mondo che vivono condizioni di bisogno reale.

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Michil, il vostro è un modo completamente nuovo e diverso di intendere e praticare l’ospitalità, coinvolgendo il personale e dando concretezza a parole come sostenibilità: come avviene questo processo?
“E’ stato un processo obbligato perché la grande sfida, nei prossimi anni, sarà avere collaboratori che amino questo lavoro e ci sarà sempre più penuria, almeno qui in Alto Adige, nel trovare personale adeguato. Quindi è fondamentale ripensare agli schemi lavorativi e questo significa: avere a disposizione una psicologa che ascolta i bisogni dei collaboratori e si occupa del loro benessere; dare loro degli alloggi consoni e adeguati alle loro esigenze; limitare le ore di lavoro; pensare a un sistema di welfare e di assistenza sanitaria, con aiuti economici alle persone che avranno bisogno, che so, del dentista o di altre pratiche medico-sanitarie. L’altra riflessione, leggendo Aristotele che parla di praxis, di comportamento, deriva dal fatto che la mia felicità dipende molto da come mi comporto nei confronti delle persone che mi fanno star bene, i miei collaboratori. Quindi se loro sono felici anch’io sto bene. Non dico dei cuochi felici perché il cuoco è un mestiere molto faticoso, ma se fatto in armonia diventa più leggero; per questo abbiamo realizzato una nuovissima cucina nel ristorante della Perla, dove c’è uno chef che si comporta bene, non è nervoso, non bestemmia e crea condizioni di lavoro ottimali. Oppure negli uffici, che abbiamo voluto trasparenti, dove uno vede l’altro, dove ciascuno sa cosa fa l’altro, con persone che conoscono il nostro bilancio aziendale, il cash-flow, sanno praticamente tutto della gestione. Penso, anzi, sono sicuro che questo rappresenti una buona pratica anche per il benessere dei collaboratori. Abbiamo una giustizia sociale nelle nostre aziende, dove, ad esempio, le donne guadagnano di più degli uomini perché valgono di più, donano la vita, ed è giusto che vengano ricompensate per questo valore”.

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Questo sistema di coinvolgimento implica anche una responsabilità diversa da parte dei collaboratori. Questo avviene sempre o c’è un percorso perché questo avvenga?
“Deve sicuramente esserci un percorso, nel senso che deve esserci la conoscenza. Non possiamo certo pensare che il lavapiatti o il cameriere sappiano o vogliano leggere un bilancio. Va spiegato che quello che si fattura non è il guadagno, quindi organizziamo dei corsi, a cui aderire volontariamente, anche per queste cose. Sono azioni extralavorative che servono a crescere: corsi di contabilità, o di tedesco, oppure la possibilità di frequentare un corso di Donna Letizia, di bon ton, per spiegare che i gomiti sul tavolo non si mettono. Poi ne faranno ciò che vogliono, ma noi abbiamo il dovere morale di dare queste possibilità di conoscenza a tutti. Poi ci sono le regole, perché l’uomo può essere, al contempo, più di un angelo e meno di una bestia, quindi va educato. I nostri collaboratori, ad esempio, possono utilizzare le piscine e gli spazi comuni dell’hotel, ma con regole uguali a quelle per gli ospiti stessi”.
Quelli che non partecipano a queste attività sono penalizzati?
“Bella questa domanda. Ovviamente no, però quelli che partecipano ai corsi, e ne facciamo tantissimi di ogni tipo, sono premiati e acquisiscono dei punti che, a fine stagione, si tramutano in premi. E poi non dipende solo dal collaboratore, bensì dal caporeparto incentivare la frequentazione, che va spronato dal direttore che, a sua volta, va motivato da chi sta a capo dell’azienda. Quindi la colpa è sempre mia se qualcosa non funziona come dovrebbe. Ci sono anche corsi obbligatori, come quello del buon vivere, perché da questi insegnamenti si dà esempio anche all’ospite. Lo facciamo perché viviamo in una comunità, siamo in 180 che lavorano qui e se uno si comporta bene rispetta la libertà altrui”.
Tutto questo lo fate per collaboratori che magari, alla prossima stagione, vanno a lavorare da altre parti. Il limite dell’imprenditoria italiana sta proprio in questo: non fare formazione perché si ha il timore che altri la usino. Per voi questo rappresenta un problema?
“lo dico sempre ai collaboratori che le cose che facciamo non sono solo per il bene dell’azienda, ma per loro stessi. Io ci credo nell’uomo che deve comportarsi bene; come dice Leibnitz, lo facciamo per il bene dell’umanità, per il successo dell’azienda Italia. Fallo per te, racconto, perché un giorno aprirai un tuo ristorante, una tua pizzeria e questa conoscenza ti tornerà utile. Qualche tempo fa ho parlato con Ricardo Levi, presidente dell’Associazione Editori Italiani, che conosco bene fin dai tempi in cui presiedevo l’Unione Ladina delle Dolomiti, che denunciava la mancanza di conoscenza e l’imprenditore che non si evolve tramite il sapere non sopravvive oltre una generazione”.

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Lei una volta ha detto che la troppa libertà travalica il senso del limite; una  frase che può apparire ambigua se non viene spiegata correttamente: cosa intendeva dire con questa affermazione?
“L’essere umano, nel mondo occidentale, si è valso della troppa libertà che, dalla fine degli anni Sessanta, è arrivata a noi. Ma ci sono dei limiti. Pensiamo, ad esempio, cosa significa oggi vietato vietare, che è ormai una prassi quotidiana. Chi, come me, vive e ama la montagna, capisce che queste sono un limite, non ogni cima è violabile. Dobbiamo muoverci entro regole e limiti sociali ed etici, non posso  vedere il mio vicino di casa, albergatore come me, come un concorrente verso cui fare azioni di marketing che ledono i suoi prezzi e la sua vita professionale. Con quel vicino, invece, devo fare delle politiche di valorizzazione del nostro territorio. Non posso acquistare materie prime che costano meno perché non è vero che guadagnerò di più; mi si ritorcerà contro, prima o poi. Per questo devo pormi dei limiti; negli ultimi anni sono state depauperate intere aree del mondo per le regole del mercato. Ma io non posso e non voglio essere solo un homo economicus. Io voglio lavorare per il bene comune”.
Questa visione la applicate anche nelle vostre case, verso gli ospiti? Una volta lei ha detto che non potete dare agli ospiti tutto quello che loro chiedono. Come si fa a educare l’ospite?
“Per i collaboratori c’è il veg day due volte la settimana, per l’ospite al venerdì non c’è la carne, per fare alcuni esempi di sensibilizzazione verso la sostenibilità. Però mettiamo lo speck avvolto in un bel fiocco da disfare, se lui lo vuole mangiare lo richiede ma sapendo che il suo consumo di carne influisce sull’ambiente, senza colpevolizzarlo ma inducendolo a fare una forzatura. E funziona! Noi non siamo un monastero, io faccio parte di questo circo e questo mi crea molte difficoltà perché mi rendo conto che contribuisco al malessere del pianeta. Ma voglio provare, ogni giorno, a ridurre i danni, senza chiudere e mandare a spasso 180 persone. La sensibilità dell’ospite è diversa, da ogni zona di provenienza e dall’età; l’americano è ipersensibile a queste tematiche, un po’ per tendenza e un po’ per moda; i più sensibili sono le persone che provengono dai paesi tedeschi; in Italia siamo ancora ben lontani da questo. Globalmente, però, posso dire che è sicuramente migliorata l’attenzione”.
L’economia del bene comune non è misurata da nessun PIL eppure è la molla più potente per portare avanti l’impresa: voi come la applicate?
“E’ una teoria sviluppata dall’austriaco Christian Felber e descrive un modello economico alternativo, concreto e applicabile. Misura tutte le azioni di un’azienda secondo parametri precisi per ogni singola attività. E’ un concetto alternativo di economia che non pone al centro del successo il profitto, come unica misura di successo aziendale, bensì valori quali la solidarietà, la giustizia sociale, la sostenibilità ambientale, la trasparenza e la cogestione. Noi siamo bravini, abbiamo 570 punti su mille ma io non mi accontento mai e neppure i nostri collaboratori che sono incentivati affinché l’azienda funzioni bene. L’obiettivo è aumentare il punteggio ogni anno e, siccome ci autoevolviamo, siamo più critici con noi stessi. L’economia del bene comune ci aiuta a mettere al centro la persona prima ancora dell’economia e questo fa bene alle aziende”.

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Trasparenza e niente menzogna: come è riuscito a creare un ambiente così fertile tra 180 persone?
“Con il confronto giornaliero e un percorso lunghissimo, e non ci sono riuscito del tutto, perché quotidianamente incontriamo ancora problemi. Si parla tantissimo in queste nostre case, tra noi, di ogni aspetto della gestione. La cucina è, forse, il tassello più delicato perché un cuoco è molto operativo, vuole stare in cucina e rimane ancora molto forte la gerarchia. In sala è diverso, perché si viene coinvolti dalla conversazione con l’ospite. Però il modello funziona, anche dal punto di vista prettamente finanziario; un +20% di fatturato nell’ultima stagione dimostra che siamo un’azienda sana. Tutto quello che facciamo è un processo difficile in cui ci viene in soccorso la filosofia aristotelica, il thaumazein: trovare delle risposte a domande complesse, con stupore e meraviglia. I nostri uffici, per esempio, sono stati ideati da un gruppo di lavoro costituito da chi, tra noi, fa marketing, accoglienza. Persone che non hanno mai fisicamente costruito però il risultato è stato eccellente, perché risponde ai loro bisogni. Abbiamo davvero una squadra che gioca in champion e noi alleniamo in continuazione. Monitoriamo l’andamento delle situazioni, sempre. Lo facciamo fare ai collaboratori con sondaggi anonimi a metà stagione dove viene chiesto a loro se conoscono il valore della casa. In sintesi, da questo questionario, risulta che il 78% è orgoglioso di lavorare con noi, e non per noi perché lo fanno per sé stessi e che la remunerazione è giusta”.
Come è nata la Fondazione e perché?
“Io ero diventato capo della Maratona delle Dolomiti che, in quegli anni, non funzionava e avevo deciso che, una volta approvate le mie idee e il loro risultato, avremmo destinato i fondi a qualcosa per qualcuno. Il primo anno stanziammo 40 milioni di lire alla minoranza tibetana in fuga dalla Cina, finanziando la creazione di una scuola. Volevo fare di più e seguire personalmente i risultati, per questo ho dato vita alla Costa Family  Foundation Onlus che, in 12 anni, ha sostenuto progetti nel mondo, con 100.000 euro ogni anno”.
Quanto conta avere una stella Michelin al ristorante Stua di Michil, alla Perla?
“Avere le stelle Michelin in alta Badia ha molto aiutato lo sviluppo turistico. Per noi è continuare una tradizione che ci ha dato successo e fortuna. Motiva molto i collaboratori e li mette in un’ottica di ordine, sull’abbigliamento, il decoro, l’accoglienza”.
Finisce qui la conversazione con Michil Costa, un uomo che si considera fortunato perché ha la possibilità di donare felicità agli ospiti, e anche molta umanità, aggiungiamo noi.
Luigi Franchi

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