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Non c’è niente da Rider…

16/01/2025

Non c’è niente da Rider…

Il gioco di parole del titolo è volutamente provocatorio e vorrebbe suscitare, in chi legge, un po’ di fastidio, se non, addirittura, di indignazione. 

Parliamo di Rider, quei lavoratori a cavallo di biciclette che, sempre più numerosi, sfrecciano per le strade delle nostre città. Ne abbiamo trattato altre volte, forse tra i primi a segnalare le anomalie di una forma di lavoro che, senza tanto girarci intorno, è più simile a una forma di sfruttamento che non a un servizio veramente utile.

Non è un’attività di recente introduzione, anzi, i fattorini, così definiti prima della diffusione delle piattaforme di delivery, esistono da sempre, di solito associati ai piccoli alimentari per consegne nel quartiere, ma, soprattutto, alle pizzerie, primi esercizi pubblici a utilizzare tale servizio con personale e mezzi propri. Un distinguo, questo relativo al rapporto di lavoro dipendente, non banale, perché alla base dei problemi che ciascun lavoratore deve affrontare quando è “in proprio” e, come purtroppo vediamo, poche o nulle sono le tutele a suo vantaggio.

Attenzione, siamo consapevoli che viviamo in un mondo dominato dal rapporto tra la domanda e l’offerta, così come sappiamo che la nascita delle piattaforme di consegna (non solo di cibo) da una parte aumentano le possibilità di ricavo per gli esercenti, dall’altra forniscono un’occasione di lavoro per diverse categorie, ma è veramente così oppure ci accontentiamo dei benefici di un sistema, dimenticando di vedere gli aspetti negativi di esso? 

Soprattutto, però, affrontare questo argomento di cui, forse, ormai, dovremmo sapere quasi tutto, serve a riaccendere la luce sulle storture che contraddistinguono un mestiere che, se organizzato bene, cioè diversamente da come si è sviluppato nel tempo, avrebbe dignità e vantaggi per tutti gli attori della filiera coinvolta.

La volontà di riprendere l’argomento nasce da un paio di spunti: il primo, ritratto in un’immagine osservata di persona in una notte di pioggia, il secondo grazie a una ricerca svolta da un lavoratore del settore per conto di Dastu, il Dipartimento Studi urbani del Politecnico del quale è anche ricercatore. 

Non c’è niente da Rider…

Chi abita in una media o grande città o la frequenta per lavoro ha imparato a convivere con un gran numero di (moto)ciclisti che, come si diceva nell’incipit, letteralmente sfrecciano in ogni direzione, con mezzi truccati che toccano velocità superiori ai 60 km/h, non avendo alcuna cautela nel guidare anche contromano o sui marciapiedi, scegliendo la strada più breve per assolvere al compito di consegnare nel minor tempo possibile, rischiando di provocare o subire incidenti più o meno gravi. 

Spesso si assiste con preoccupazione e turbamento alle corse di costoro in condizioni di maltempo e non è necessario ricordare l’immagine di un Rider che pedalava in una Bologna sconvolta dall’alluvione, una scandalosa vergogna per il cliente l’aver ordinato qualcosa a domicilio quella sera, un crimine aver lasciato aperte le prenotazioni per le piattaforme. Basta un poco di pioggia perché le strade bagnate, magari con in mezzo gli ancor più scivolosi binari di un tram, rappresentino un grande rischio per chi si muove a due ruote. Turbato e indignato mi son sentito anch’io, vedendomi superare, in una notte di pioggia battente, da uno di questi disperati che, per guadagnare qualcosa e non perdere la posizione acquisita con l’algoritmo che la piattaforma usa, non si fermano davanti a nulla.

La prima domanda allora è per i clienti: quale impellenza muove la richiesta di ricevere in tali condizioni una pizza o un qualsiasi oggetto? Davvero non se ne può fare a meno, aspettando almeno che il tempo migliori? 

La cosa che più colpisce, però, dai dati sull’età e sulla tipologia dei consumatori che, abitualmente, si servono del delivery è che, perlopiù, siano giovani, studenti, fuorisede. Condizioni che presupporrebbero due categorie di utenti: una di fragilità, esattamente come per coloro che svolgono questo mestiere e che, per solidarietà, dovrebbero comprendere la situazione ed evitare di utilizzare questo servizio, l’altra, all’opposto, di abbienza, che dovrebbe garantire comportamenti diversi quando si tratta di procurarsi un pasto. Invece, pare che entrambi non cucinino mai e, sempre meno, almeno i secondi, escano per mangiare fuori casa. Ecco un altro paradosso: abbiamo sempre chiamato questo settore “Fuoricasa” e ora c’è una tendenza sempre più marcata, specie nelle giovani generazioni, a non muoversi più da casa, dunque, come dovremmo chiamare oggi questo tipo di ristorazione? “Meloportiacasa”?

Non c’è niente da Rider…

Ma veniamo, appunto, a chi, in questo sistema, sta all’altro capo del servizio fornito dalle piattaforme, il ristoratore.

Quando le prime società di delivery hanno cominciato a diffondersi, complice, peraltro, un rapido e forzato sviluppo, dovuto al periodo pandemico, quanto veniva prodotto era considerato, giustamente, una parte di ricavo che si aggiungeva al fatturato acquisito con la clientela seduta nel proprio locale. Un modo, come anche per l’asporto, per aumentare avventori ed entrate che garantiva un margine migliore grazie alle economie di scala.

Nel tempo, però, la situazione è peggiorata estremizzandosi, infatti, se da una parte, come ciascuno di noi può constatare, i Rider sono sempre meno tutelati e rischiano al massimo per ottimizzare le consegne, dall’altra i ristoranti non sono più il vero interfaccia del cliente.

Come rilevato dalla ricerca svolta da Daniel Hagos, Ricercatore per il Dastu e Rider, oggi a dominare il mercato delle consegne di pasti a Milano sono le cosiddette Dark Kitchen, al momento della ricerca oltre 6 distribuite in città e frequentate quotidianamente da più di 5000 fattorini. 

Non c’è niente da Rider…

A questo punto la domanda che ci si pone è: chi realmente beneficia di tutto questo? La risposta è semplice, le piattaforme che sfruttano il nome dei ristoranti e non più le cucine, riducendo il loro margine fino a quando, forse, lo ingloberanno completamente nel momento in cui al cliente che il pacco gli arrivi dal locale che probabilmente non ha mai frequentato o da un luogo anonimo non interesserà più.

Una ottimizzazione per le piattaforme, venduta come migliorativa anche per i Rider che, anziché girare come trottole per la città in ciascun ristorante, vedono nelle Dark Kitchen un luogo organizzato ed efficiente e senza problemi di rapporto con i ristoratori concentrati nel servizio dei clienti tradizionali.

 

In conclusione, stabilito che lo sviluppo di questo servizio ha seguito le regole dell’economia, diremmo del capitalismo, per cui a domanda, l’offerta si adegua, riducendo i costi sempre di più e cancellando tutto il superfluo (non solo sicurezza e diritti del lavoratori, ma, prima o poi anche i ristoranti), una considerazione sociologica sorge spontanea: fingendo di non considerare i problemi etici alla base di questo sistema, i ristoranti dovrebbero essere i luoghi della convivialità, ma se si trasformano in semplici cucine che sfornano pacchi, venendo, prima o poi, sostituiti da laboratori esterni, che senso ha che continuino a esistere?

a cura di

Aldo Palaoro

Giornalista ed Esperto di Relazioni Pubbliche, da quando non si conosceva il significato di questo mestiere. Ha costruito la sua professionalità convinto che guardarsi in faccia sia la base di ogni rapporto. Organizza corsi di scrittura e critica gastronomica.
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