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Ogni lustro si cambia gusto

10/04/2018

Ogni lustro si cambia gusto
L’affermazione di Luigi Giudici – ad ogni lustro si cambia gusto - un cuoco che di cucine ne ha vissute tante nella sua vita professionale, mi è tornata in mente nei giorni in cui il mondo virtuale si divideva, come al solito, in due: pro o contro la pizza di Carlo Cracco. Una polemica sterile, costruita quasi ad arte da alcuni campioni della visibilità, che ha portato un solo risultato che lascio immaginare e molte inutili parole ad ingigantire la già esondante food-porn letteraria in cui ci troviamo a galleggiare.
Però quella frase – ogni lustro si cambia gusto – può servire a ricordarci che nulla è immobile e nulla è identico a ciò che era prima. Ricordate i tagliolini panna, prosciutto e piselli?
Se qualche chef mediatico li proponesse oggi, le grida virtuali salirebbero in cielo, tutti spinti a filosofeggiare sul valore intrinseco della tradizione e dei felici anni ’80 oppure “sull’affioramento ottenuto dalla fermentazione a bassissima temperatura delle muffe nobili della panna estratta con la tecnica dell’estrusione affinata in un viaggio nelle lande dell’est”.
Con un limite. Quello di parlare per sentito dire. Quello di scrivere senza aver assaggiato. Quello di criticare su prezzo, porzione, servizio senza aver mai varcato la soglia del locale o la cucina dello chef in questione.
Basta! Non se ne può più!
Tornino a parlare solo coloro che lo fanno a ragion veduta, con prove di assaggio alla mano e non solo giudizi appesi a una fotografia bruttina e, comunque, non mangereccia.
Quando leggerete questo pezzo la polemica sulla pizza di Cracco sarà già stata archiviata, senza nulla lasciare. Eppure potrebbe avere un merito: far riflettere proprio sul cambio di gusti, di mentalità, di approccio al cibo. Sarebbe stato interessante capire cosa ci sta dietro a quella pizza; se c’è stata ricerca o semplice assemblaggio di materie prime. Invece il nulla.
Attorno a noi il cibo sta cambiando, lo ha sempre fatto e ancora adesso pochi ne parlano. Fino a dieci anni fa si andava al ristorante con un solo intento: mangiare. Oggi, invece, si parla di esperienza. Benissimo, ma di quell’esperienza cosa rimane nella cultura di una persona, nell’identità di un territorio, nella conoscenza della materia? Sono queste le cose di cui pochi, troppo pochi, parlano.
Restituiamo alla cucina, al cibo, la sua componente di serietà: con questo non voglio dire che non ci si debba divertire attorno ad un piatto, ad una ricetta, ad una sperimentazione con gli ingredienti. Anzi, ben vengano tutti i tentativi, ma quelli non riusciti archiviamoli per favore. Per tornare a capire, tutti, il valore da attribuire a un alimento, a una ricetta, a un’esperienza.
La ristorazione in Italia sta cercando una sua identità, dividendosi sulla difesa strenua della tradizione rispetto a un’innovazione che naviga forse un po’ troppo a vista. Noi crediamo che, proprio per la ricchezza della biodiversità dei prodotti, per i mille e mille campanili sotto cui si riassumono le infinite varianti di un piatto, la ricerca possa riassumersi sotto una sola parola: semplicità.
Praticare la semplicità è forse l’azione più difficile che ci sia in cucina, ma il lustro che ci attende va proprio in quella direzione.

Luigi Franchi
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