Nel territorio imperiese l’olivicoltura è stata introdotta dai Benedettini nel IX secolo diventando una delle principali attività a partire dal XVI secolo. I monaci di San Colombano impiantarono a Taggia alcune piante provenienti dall'isola monastero di Lerino, in Provenza. Il frutto di quelle piante prese il nome di oliva taggiasca, una varietà unica nel suo genere, per il gusto molto particolare dotato di grande raffinatezza.
Le condizioni di lavoro per produrre queste olive non sono facili, si tratta di 2.600 ettari per lo più su terrazzamenti, terra rubata alla montagna, suddivisi tra centinaia di piccoli produttori che, oltre alla coltivazione si devono preoccupare di mantenere in buono stato i muretti a secco secolari che permettono queste produzioni.
In questo contesto nasce Olio Salvo, un’azienda ricca di storia, nasce infatti nel 1897, e attenta, da sempre, alla salvaguardia del lavoro dei piccoli produttori. Il percorso dell’azienda, infatti, è sempre andato di pari passo con l’evoluzione della olivicoltura imperiese.
Olio Salvo nasce a Bordighera dalla famiglia Rossi. Negli anni ’60 del secolo scorso fu acquistata da Vincenzo Salvo che la portò ad avere anche uno sbocco sull’estero e a produrre l’olio come ancora oggi viene presentato. Il loro è leggermente torbido per un motivo: contiene circa il 25% in più di antiossidanti, ed è dolce e leggero con straordinari sentori aromatici.
Questa visione internazionale ha permesso di non considerare la concorrenza come qualcosa di negativo perché qui c’è un elemento che conferisce unicità: l’oliva taggiasca.
Un’oliva che ha caratteristiche particolari, che in cucina cambia il piatto! E i cuochi davvero capaci la riconoscono subito! Le caratteristiche dell’oliva taggiasca sono note: molta polpa attorno al nocciolo, tra il’60% ed il 70%; odore spiccato di oliva fresca, sapidità presente ma non persistente; croccante e leggermente amarognola; da cotta resta morbida ma soda e l’amarognolo lo trasferisce nel piatto.
Componenti che sono rese possibili dal territorio in cui viene coltivata: quei terrazzamenti che, grazie al lavoro dell’uomo nei secoli scorsi, hanno permesso al terreno di contrastarne la fragilità e hanno consentito alle persone di avviare un’attività che è molto faticosa ma che ha generato reddito per sopravvivere. Quel reddito oggi deve essere valorizzato, difeso, tutelato; per dare un futuro a questa terra, alle persone che la curano, ai giovani che altrimenti emigrano.
Come fare?
Dando valore scientifico all’oliva taggiasca.
Un prodotto vegetale come l’oliva taggiasca non può avvalersi della Denominazione di Origine Protetta, a meno che non cambi nome perdendo in questo modo la sua storia originale.
Per questo è stato individuato un altro percorso: quello di andare all’origine del prodotto. Le aziende del comitato Salvataggiasca si sono avvalse delle competenze del Parco Tecnologico di Lodi, la cui missione è la promozione della ricerca scientifica e del trasferimento tecnologico nei settori agroalimentari, delle scienze della vita e della bioeconomia. Una volta rilevato il dna dell’oliva taggiasca è stato fatto certificare da Accredia.
Perché tutto questo per un’oliva?
Un’azienda può fare molte altre cose, il contadino può vivere solo del suo raccolto e se questo raccolto non è pagato il giusto quel contadino smette di lavorare. Le conseguenze, oltre ad essere drammatiche per il contadino, lo diventano per tutto il territorio perché nessuno se ne prenderà più cura.
Per questo le aziende hanno voluto la certificazione del DNA, per aiutare il mondo agricolo ad avere il giusto compenso per il lavoro che svolge. E il giusto compenso lo ottieni quando un prodotto ha il valore che gli viene riconosciuto.
Sono 750 gli olivicoltori coinvolti nel progetto del DNA dell’oliva taggiasca, 750 famiglie che hanno, mediamente, un ettaro di uliveto, talmente piccoli che non potrebbero mai competere sul mercato globale, pur avendo un prodotto unico che ha il suo epicentro tra Albenga e Ventimiglia, un epicentro fatto di clima, terra e mani dell’uomo.
Il Dna serve dunque a tutti coloro che acquistano il prodotto, agli chef che lo utilizzano, alle aziende che producono. È un elemento forte, perché basato sulla scienza, di garanzia dell’oliva. Un processo che è più difficile applicare all’olio perché con l’allontanarsi dalla frangitura il DNA si dissolve.
Ma questo processo scientifico serve soprattutto al territorio, a tutti quelli che lavorano negli uliveti dell’entroterra di ponente; un territorio plasmato nei secoli dal lavoro dell’uomo, con fatica, con coraggio. E che rischia di andare perduto se non diventa lavoro retribuito con giustizia.