Una figura solida, poliedrica, sensibile
La risposta è ancora lì: mancavano le persone che sanno dare un’anima ai luoghi.
E l’osteria è, per definizione, il luogo, la casa, dell’oste.
“Una figura inconfondibile e vigile, onnipresente” scrive Alberto Capatti nel libro L’Osteria nuova; una sagoma che non ha un volto definito, delle skills universalmente conosciute, ma è riconoscibile tra mille sguardi nel tumulto dell’osteria. Anche senza il grembiule o una divisa da chef, come va di questi tempi, che la consacrano.
L’oste può essere giovane o anziano, secchissimo o abbondante, burbero o cordiale. Può esserci nato in quelle vesti, oppure averle conquistate, come accadeva in passato: da commerciante di vino a improbabile chimico (perché il vino lo ‘aggiustava’ in cantina) sino a ristoratore primordiale, con salumi, formaggi e altre pietanze portate tra le mani o messe in mostra al bancone.
Spesso svolgeva anche due lavori - l’oste e il barbiere, o il sarto - e quand’era in osteria aveva l’arduo compito di tenere a bada situazioni accese, governare discussioni, riscuotere l’incasso prima che gli ospiti cadessero in letargo. Quando serviva si improvvisava pure buttafuori. D’altronde le osterie erano spazi goliardici, teatro della vita popolare, in cui si beveva molto, molto, molto; ci si incontrava e si discuteva, si esagerava. L’oste, che era solito riempire due bicchieri - quello dell’avventore e il suo - doveva governare questi equilibri e marcare il confine tra sé e chi aveva davanti, concedere crediti gestibili, soddisfare i clienti senza impicciarsi, chiudere bottega al momento giusto, accogliere senza pregiudizio.
A proposito di accogliere: Mario Soldati nei suoi straordinari racconti di viaggio in Italia tra vino, cibo, osterie e cantine, dà un’immagine romantica, ma più che condivisibile, di questa figura simil-leggendaria: l’oste è… un abbraccio.