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Osterie senz’oste

06/09/2022

Osterie senz’oste

Mentre ragionavo sul modo migliore per scrivere questo articolo è improvvisamente comparsa. Lì, in verticale, rossa, stampata su un muro scrostato di un paesino di montagna: la scritta Osteria, per giunta in stampatello, carattere anni ’50.
Che gioia. Che sollievo per l’umore quel brandello di lettere.

Dentro quell’edificio fatiscente però non c’era nessuno. Era chiuso, vuoto, sbarrato. La sensazione di calore nell’aver trovato una sosta felice, a una manciata di minuti dall’ora di cena, prima dell’amara scoperta, ricordo bene, non era mancata. Mi aveva percorso per pochi secondi la schiena e solleticato il palato. Stavo già pensando a un buonissimo piatto fumante, a un bicchiere, forse due. E anche a un’inaspettata conversazione con il padrone di casa. Sarebbe stata la svolta del mio viaggio, quell’osteria. Una cartolina che diventava libro una volta messi i piedi dentro.

Le persone fanno i luoghi

Cosa mi ha lasciato oltre all’amaro in bocca? Un principio pulito, che troverà sostegno nelle righe che seguono: sono le persone che animano i luoghi.

Sono loro che dipingono le soste con gesti e attenzioni; che riempiono le stanze di cose buone, di pensieri, ilarità, tensioni. Di memorie, di suoni. Quel luogo abbandonato avrebbe tutt’altro volto se dentro vi fosse rimasto qualcuno. Magari non avrebbe avuto il bancone e le sedie di design, le luci al neon, i muri perfettamente tinti, come va di moda oggigiorno, ma l’oste che lo abitava avrebbe sicuramente ristorato degnamente chiunque vi fosse entrato.

M’è capitato anche il contrario, recentemente: trovare un’insegna aperta, con la scritta osteria bella illuminata, i profili impeccabili, gli spazi puliti, organizzati, le tovagliette in carta riciclata con grafiche originali, le caricature, le lavagnette scritte con il righello, i piatti dalle porzioni misurate, le  persone vestite di tutto punto… ma non avvertire alcun piacere.
Cosa mancava, invece, in quest’altro posto?

Osterie senz’oste

Una figura solida, poliedrica, sensibile

La risposta è ancora lì: mancavano le persone che sanno dare un’anima ai luoghi.

E l’osteria è, per definizione, il luogo, la casa, dell’oste.

“Una figura inconfondibile e vigile, onnipresente” scrive Alberto Capatti nel libro L’Osteria nuova; una sagoma che non ha un volto definito, delle skills universalmente conosciute, ma è riconoscibile tra mille sguardi nel tumulto dell’osteria. Anche senza il grembiule o una divisa da chef, come va di questi tempi, che la consacrano.

L’oste può essere giovane o anziano, secchissimo o abbondante, burbero o cordiale. Può esserci nato in quelle vesti, oppure averle conquistate, come accadeva in passato: da commerciante di vino a improbabile chimico (perché il vino lo ‘aggiustava’ in cantina) sino a ristoratore primordiale, con salumi, formaggi e altre pietanze portate tra le mani o messe in mostra al bancone.

Spesso svolgeva anche due lavori - l’oste e il barbiere, o il sarto - e quand’era in osteria aveva l’arduo compito di tenere a bada situazioni accese, governare discussioni, riscuotere l’incasso prima che gli ospiti cadessero in letargo. Quando serviva si improvvisava pure buttafuori. D’altronde le osterie erano spazi goliardici, teatro della vita popolare, in cui si beveva molto, molto, molto; ci si incontrava e si discuteva, si esagerava. L’oste, che era solito riempire due bicchieri - quello dell’avventore e il suo - doveva governare questi equilibri e marcare il confine tra sé e chi aveva davanti, concedere crediti gestibili, soddisfare i clienti senza impicciarsi, chiudere bottega al momento giusto, accogliere senza pregiudizio.

A proposito di accogliere: Mario Soldati nei suoi straordinari racconti di viaggio in Italia tra vino, cibo, osterie e cantine, dà un’immagine romantica, ma più che condivisibile, di questa figura simil-leggendaria: l’oste è… un abbraccio.

Una sala di Amerigo 1934 a SavignoUna sala di Amerigo 1934 a Savigno

Leggete questo passaggio tratto Da Leccarsi i baffi, che racconta l’approdo di Soldati a Roverano, in provincia della Spezia: “Appare una donna grigia, magra, scarmigliata, ridente, che dopo aver chiesto scusa per il suo abito con civilissimo garbo dice: da mangiare? Se si contentano”. A quel punto la signora, la vice-regina, apre le porte dell’osteria e li accoglie con autentica semplicità. Porge un paio di piatti essenziali, l’insalata appena colta dall’orto, le uova all’olio. Regala loro una bella conversazione condita da aneddoti e timori per il futuro. Li omaggia con una formaggetta.

In poche righe c’è tutto quello a cui ci hanno abituato gli osti che amiamo ricordare: accortezze, parole che rimangono, un dono da portare in viaggio, uno spunto su cui riflettere. Cose che avremmo ignorato se non ci fossimo fermati proprio in quel luogo lì, vivo grazie ad una signora.

Mario Soldati, foto tratta da personalreporter.itMario Soldati, foto tratta da personalreporter.it

Cosa ci manca oggi

Torniamo ad oggi però, perché rintracciare queste figure quasi mitologiche è un po’ più raro… ma non impossibile! È indispensabile ripartire dalle loro esperienze per evitare di perdere la sostanza.

Enzo Manias de Al Cjasal è oste da una vita. Chissà quanti volti ha incontrato e quanti calici - e goti, in origine - ha soddisfatto. Potremmo riempire un libro con le espressioni o gli episodi che concede ma è meglio che lo faccia lui, quando vi accoglierà nel locale ora condotto dai figli Mattia e Stefano, a San Michele al Tagliamento. Qui dice molto altro.
 

“Questo lavoro è amore per il prossimo, per il cibo e il vino. Se mancano tali requisiti è un atto di compravendita, puro commercio senz’anima. Essere osti e ristoratori significa cercare il buono, consegnare piaceri, dare un senso al lavoro altrui. Essere anche democratici, perché si accoglie chiunque decida di varcare la soglia. Quando avevamo l’osteria entravano contadini e avvocati: tutti erano alla pari, sullo stesso piano, avevano un bicchiere davanti e tante cose da dirsi e le ore scorrevano. L’osteria è un luogo d’inclusione, di socialità, uno spazio senza tempo… che a un certo punto chiude le porte ma il giorno dopo le riapre per tutti!”.

Enzo Manias, foto di Paolo GonzatoEnzo Manias, foto di Paolo Gonzato

Ma è anche un contenitore di buoni propositi e conquiste.

“Nell’osteria per come la intendevo e intendo io - continua - dev’esserci il senso di appartenenza al territorio. Si deve dialogare con le economie della zona, con chi produce, con chi abita. Chi la gestisce dev’essere intelligente e scaltro, far tornare i conti con piccole, innocenti, strategie; non significa fregare l’ospite ma far girare l’economia garantendo a tutti quello che si aspettano. Bisogna poi essere insaziabili di relazioni, di scoperte. Ho incontrato tantissime persone ma le cerco ancora, a distanza di anni. Ho sempre amato stringere la mano al produttore, cercare le informazioni da fonti serie per capire cosa accade intorno al locale. Per capire la terra su cui poggio di che natura è”.

Immancabilmente, senza avvisare, Enzo si defila per rimediare una bottiglia che ci tiene a farmi assaggiare. Ritorna, la apre, e racconta per filo e per segno la storia di quel vino dorato di Aquileia sorprendendosi dei profumi e delle sfumature che trapelano dal vetro del bicchiere.

“Abbiamo sviluppato una tendenza sbagliata oggi - continua mentre lo assaggia - premiare e stilare classifiche. Credo che questo mondo non abbia bisogno di primi della classe ma di persone che sappiano valorizzare. Sono i ricordi, le parole, i gesti, le cose che rimangono davvero. Anche la condivisione di un vino come questo”. E ce l’hai appena dimostrato, Enzo.

Ritrovare le parole, il significato

Ripartiamo dai gesti per raccontarvi un’altra storia, un altro luogo in cui l’oste c’è e fa la differenza. Era la prima volta che mi recavo all’Osteria Nova di Este. Un piccolo locale, sotto di qualche gradino rispetto alla strada, a una breve passeggiata dalle mura del castello estense.

Era la prima volta, era inverno, e già mi sentivo avvolta da quelle pareti a due colori piene di quadri, bottiglie, carta paglia disegnata dai bambini. Si era stati bene. Silvia Tolin, l’ostessa, a fine cena si avvicinò al tavolo chiedendomi una cortesia. Lo fece con un garbo e una spontaneità che raramente ho rintracciato. La cortesia era semplice: dirle se volevo trattenermi molto una volta preso il caffè. Mi voltai e c’erano diverse persone fuori che desideravano sedersi per mangiare. Le dissi che avevo abbondantemente finito e che avrei lasciato loro il posto. Tornò con un sorriso lungo, aperto, e due fette di torta (per altro buonissime) per ringraziarmi. Mi rimase dentro il modo con cui lo fece, libero, sincero. Dietro c’era sicuramente qualcosa da indagare. Eccola.


Silvia è qui da otto anni. Nasce da una famiglia legata al mondo della ristorazione, alle carni, al cibo. Ha un percorso di tutt’altra portata però, scandito da arte e pedagogia, che le è comunque servito ad arrivare dov’è oggi. Ha voluto un posto che fosse davvero un’osteria, vista la carica storica di questo ambiente che ospita persone da più o meno settant’anni. Formaggi e salumi belli in vista, cibi pronti per chi vuole goderseli a casa, un menu lineare, di pancia, piccoli dettagli che fanno intendere che questo locale è stato desiderato e amato da subito. Dietro a tutto però, ci sono anche tanti pensieri che confermano la mia teoria iniziale.

Silvia Tolin, foto di Davide MantovanelliSilvia Tolin, foto di Davide Mantovanelli

“Volevo un’osteria vera. Ho scelto di chiamarla Ostaria Nova, sì con la “a”, per rafforzare il legame con il dialetto locale. Purtroppo stiamo denigrando la nostra lingua, le nostre origini. Si utilizza l’inglese al posto dell’italiano per abbreviare e sempre meno il dialetto. Ma la nostra cultura, il nostro tesoretto, non ha bisogno di sintesi, deve preservare le sue sfumature. La parola osteria è stata mal interpretata negli ultimi anni. Si è perso il significato primo, l’etimologia e in alcuni posti lo si vede chiaramente”.

Osterie senz’oste

Continua, alzandosi di tanto in tanto per controllare che tutti siano sereni al tavolo.

“Ci abbiamo messo dentro tutto ciò che per noi dovrebbe avere un’osteria. Alcuni ci avanzano una critica: non abbiamo il vino sfuso. Per me la risposta è immediata: dobbiamo rispettare chi produce, dare un nome e un cognome a ciò che serviamo. Non travolgiamo i clienti con tante nozioni, ma alcune informazioni sul vino o sul cibo sì. Come è prodotto, dove e da chi. In questo territorio, come in tanti altri in Italia, c’è un gruppo di persone che collabora con una visione comune. Siamo solidali, abbiamo a cuore la consapevolezza di chi ignora. L’unico modo per costruire il futuro è questo: ritrovare e raccontare le identità correggendo dove è necessario”.
 

E la risposta, sulle presunte osterie senz’oste, arriva dritta, come a volte sa essere Silvia.

“Quando sono entrata qui i muri mi parlavano. Credo parlino ancora anche grazie alle mie, alle nostre, scelte, e grazie alle persone che l’hanno frequentata. Le osterie intese come locali sterili, privi di significato, uguali uno all’altro nell’aspetto e nel contenuto non possono resistere. Per me sono dei non-luoghi e non crescono con il passare delle stagioni”.
 

Dei luoghi fatti di carta, destinati a svanire nel tempo, a rimanere in auge per un battito d’ali. Tutt’altra cosa sono, e spero siate d’accordo, le osterie piene e vive. Le osterie con l’oste.

a cura di

Giulia Zampieri

Giornalista, di origini padovane ma di radici mai definite, fa parte del team di sala&cucina sin dalle prime battute. Ama scrivere di territori e persone, oltre che di cucina e vini. Si dedica alle discipline digitali, al viaggio e collabora con alcune guide di settore.
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